giovedì 16 settembre 2010

Cosa resterà di questo anno '80?

Le sei frecce (ii)

di Niccolò Fattori

La prima pagina del quotidiano
Hurriyet del 12 settembre 1920
Fonte: wikipedia.org
La prima pagina del quotidiano Hurriyet titolava "I militari hanno preso in mano il controllo". Era il 12 Settembre 1980.
La faccia sorridente del generale Kenan Evren cercava di rassicurare i Turchi riguardo alle intenzioni della nuova giunta: il paese era sull'orlo del tracollo, le continue notizie di scontri e proteste nei campus universitari facevano passare in secondo piano un'esponenziale crescita a tre cifre del tasso di inflazione.
Come la mise un mio compagno di corso: «Gli studenti dell'ultradestra ammazzavano gli studenti dell'ultrasinistra. Gli studenti dell'ultrasinistra ricambiavano». Si arrivò addirittura a fondare una repubblica sovietica sulle sponde del Mar Nero.
Di nuovo, come già dieci e vent'anni prima, nel '60 e nel '71, la mano pesante e sicura delle forze armate calava sulla politica, smantellando il sistema dei partiti ed imponendo a plebisciti una costituzione "affidabile" e blindata, probabilmente con la sincera convinzione di agire per il bene del paese.
La vita civile e politica della Turchia fu costretta dentro gli argini di un sistema monocamerale con sbarramento al 10% ed un pantagruelico premio di maggioranza che potesse garantire un parlamento docile, mentre le sinistre di ispirazione marxista si ritrovarono a subire una cortese demonizzazione, prima di essere poi cancellate a viva forza, e la galassia di cellule, partitini, partitucci, sindacati ed agitatori presto si trasformò in un ricordo di quei vent'anni tragici e confusi, tra un colpo di stato e l'altro.
Gli organici universitari subirono drastici rimpasti e rimescolamenti, mentre un programma di studi incentrato sulla "sintesi turco-islamica" cercava di insegnare ai cittadini di domani che l'unità della nazione (lingua, etnia, credo religioso), costituiva un valore indubbiamente superiore a qualsiasi ideale una fede politica potesse offrire.
Trent'anni dopo, i quotidiani Taraf e Star, espongono trionfanti in prima pagina: "Il popolo ha preso in mano il controllo".
Al posto dell'ormai impresentabile novantatreenne generale Evren, l'immagine di un signore barbuto che regge un cartello con scritto evet, turco per "sì".
La contrapposizione tra Evet e Hayir, tra Sì e No, è stata l'Evento cardine di questa lunga estate calda della politica turca.
L'AKP di Erdogan ha pazientemente costruito, in nove anni di vita ed otto di governo, il consenso popolare necessario a stravolgere la costituzione imposta dall'esercito, accreditandosi agli occhi della comunità internazionale come primo credibile interlocutore turco per l'ingresso nell'UE, riaprendo i negoziati con l'Armenia e riuscendo in un'inedita politica di flirt con Russia e Stati Uniti al tempo stesso.
Il Governo di Tayyip Erdogan, indomito politropo, forte dell'appoggio dei piccoli proprietari anatolici, della borghesia urbana scontenta dei vecchi partiti ed erede della mastodontica macchina propagandistica del Refah Partisi, il vecchio partito islamico, si è dato da fare per sgretolare l'edificio tirato su dai militari con la Costituzione dell'83. A poco a poco, i codici civile, penale e di procedura penale sono stati emendati per avvicinarsi alle controparti europee e soddisfare i criteri di Copenhagen, il "problema" curdo, che secondo molti turchi, non sussiste, è stato affrontato di petto, portando, almeno in una prima fase, a buoni risultati.
Ora, con l'ultimo referendum, la società civile turca sembra essersi lasciata alle spalle un retaggio dagli aspetti davvero neo-ottomani: corti diverse per civili e militari, diritti individuali subordinati alla volontà dello stato, e il totale dominio ideologico e culturale dell'establishment kemalista. E lo ha fatto in un modo piuttosto paradossale. Un partito radicato nel mondo islamico, il cui leader ha ripetuto in più occasioni che la Democrazia non è un obiettivo ma un mezzo per raggiungere la felicità (utilizzando il termine saadet, dalle pesantissime connotazioni religiose, che indica la felicità del regno di Maometto a Medina), ha fatto l'impossibile per avvicinare la costituzione ai modelli europei. Nel frattempo, il partito d'opposizione repubblicano e kemalista, che da statuto guarda a certi aspetti del mondo occidentale come ad un traguardo, ha remato contro con tutta la forza rimastagli dopo anni di logorante irrilevanza, impuntandosi su aspetti personali dell'operato del primo ministro e cavillando sul numero di giudici costituzionali rimasti dopo la riforma, sempre attento a rinfocolare il timore di una controrivoluzione religiosa.
Kemal Kiliçdaroglu, leader del principale partito di
opposizione, soprannominato 'Il Ghandi Turco'
Fonte: hurriyetdailynews.com
I Nazionalisti d'Azione del MHP hanno fatto campagna per il No, finendo per votare Sì, mentre i curdi del BDP (Partito per la Democrazia e la Pace), date chiare indicazioni di boicottaggio, hanno continuato a lamentarsi del mancato riconoscimento della questione etnica nel sudest.
Uno psicodramma durato tutta l'estate, che tra dibattiti, teorie cospirative, pianti ed isteria collettiva ha ottenuto nei mezzi di comunicazione uno spazio pari solo a quello dei Mondiali di basket.
Ma lo psicodramma è finito in tragicommedia, con il leader dell'opposizione repubblicana che non può andare a votare per problemi di registrazione, mentre Erdogan festeggia prendendosi un succo d'arancia con Bono degli U2, altra arma politica giocata dall'AKP, più baldanzoso ed in forma che mai.
Erdogan e gli U2
Fonte: medya.todayszaman.com
Ma nel concreto, cosa resterà di questi anni '80?
La società civile turca è sempre più divisa tra centro e periferia, laici e religiosi, burocrati e piccole imprese. Izmir e Kars.
La scuola, dopo essere stata nelle mani dei militari per due decenni, continua a sfornare gente dalla forma mentis omologata, incapace di farsi prendere da valori universali o semplicemente umanistici, le Università sono lottizzate e la simonia partitica dei rettorati è ancora una realtà innegabile.
Ma l'economia gira, la stabilità degli ultimi dieci anni ha attirato fortissimi investimenti stranieri e se per le strade è sempre più frequente vedere ragazze col velo, è perché si sentono sicure e non temono ostracismi. Nonostante le finestre dei ristoranti siano oscurate durante il Ramazan e le cheerleader ai Mondiali di basket siano state cacciate, gli standard di vita e l'apertura mentale dei turchi sono aumentati, e questo trend sembra destinato a continuare, almeno per un po'.
A trent'anni dall'infausto darbe, ormai, la Turchia si è lasciata alle spalle i momenti più bui degli scorsi decenni.
E di questo anno '80, alla fine, son rimasti solo brevi fotogrammi o treni in galleria.

2 commenti:

  1. La verità è che due diversi regimi si sono scontrati uno ideologico ed un pragmatico, ha vinto naturalmente quello dei fatti, ma la triste verità è che il paese è lungi dalla vera democrazia ed anche dal affrontare i problemi posto dal presente.
    Che rilievo hanno avuto fino ad oggi le politiche sviluppo rurale per non parlare di quelle giovanili.
    La Turchia è colonia della macchina capitalistica mondiale dove gli status symbol sono dettati dalle multinazionali occidentali.
    la tanta augurata invasione degli emmigrati in ritorno dopo una o due generazioni non c'è e quei pochi che ritornano certamente non hanno scalfito la vita sociale.
    Si la Turchia si sta ammodernando più che mai, prendendo tutti gli aspetti negativi della moribonda civiltà occidentale

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  2. Osman, ovviamente, tu conosci la Turchia molto meglio del sottoscritto, occasionale osservatore e "simpatizzante". I motivi dietro al referendum sono chiari. La volontà di annullare la spada di Damocle delle corti costituzionali e suprema, diminuire il peso del Consiglio di Sicurezza Nazionale, il rendere il potere giudiziario sottoposto all'esecutivo. Cose che quando succedono in Italia provocano giustamente sconforto e reazioni collettive. Eppure, da quanto ho avuto di vedere, anche vivendo in una realtà come quella di Sakarya, città d'orientamento ultraconservatore, dall'occidente non arrivano solo macchine, musica e mollezza dei costumi. Forse non è arrivato il Liberalismo come lo intendiamo noi, e sicuramente tra le preoccupazioni principali del contadino di Kahramanmaras non c'è la partecipazione politica, ma se la Saadet è lontana, quantomeno la nazione sembra aver imboccato la via della serenità economica e della stabilità politica, sempre condita da una preoccupazione peculiare per la correttezza formale e comportamentale. Niccolò

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