venerdì 15 ottobre 2010

La nuova vita della Brigata Eber

Die Ausgewanderten (i)

di Simone Morgagni

Questo breve pezzo avrebbe dovuto parlare di altro.
Avrebbe dovuto parlare di zii da appendere e nipotine che hanno fatto una brutta fine.
Avrebbe dovuto parlare d'italiani, colpevoli certo, ma da sottrarre alla giustizia per poterli gaiamente mettere al rogo. Con «fiaccole e forconi», giusto per riprendere alcune testuali parole che mi è capitato di sentire.
Avrebbe dovuto parlare di un trattamento "mediatico" di questa vicenda che si potrebbe definire con questo termine solo tra grandi difficoltà e di tutta una riflessione più vasta che da qui dovrebbe iniziare.
Avrebbe, appunto, se non ci fosse stata una sorta di urgenza a costringermi a esordire su queste pagine con tutt'altro tema.
Riprenderò probabilmente le fila del discorso interrotto tra qualche giorno, un po' perché è giusto, quando si parla di cronaca, non farlo nel tempo della cronaca, ma nel più sano tempo della riflessione, un po' perché la ragione di essere di questo spazio (e della mia presenza nello stesso) è quella di contribuire a invertire tempi e modi di alcune forme antropologiche dell'Italia di oggi.
Che questo sia positivo o negativo se ne potrà discutere. Che sia, è ormai un dato di fatto.
Parliamo dunque di altro. Parliamo di un qualcosa di altrettanto scioccante, almeno dal mio punto di vista e, credo, più generalmente da quello della logica di base, che si vuole sempre e comunque anche logica politica, e che la scuola italiana ha fatto in tempo a insegnarmi, prima che mi ritrovassi a guardarla da oltre la frontiera. Parliamo quindi di una bomba artigianale che esplode sotto un blindato italiano in mezzo al deserto afghano uccidendo quattro alpini e ferendone un quinto.
In tutta questa vicenda, che potrebbe essere approcciata da un'infinità di punti di vista differenti, vorrei concentrarmi in particolare su due frasi enunciate da due Ministri della Repubblica Italiana, entrambi appartenenti a quei personaggi cui io avrei affidato tutto tranne qualsiasi cosa, ed entrambe spiacevolmente fuori luogo o più semplicemente grottesche, conoscendo il ruolo istituzionale di chi ha potuto proferirle.
La prima, enunciata dall'attuale Ministro della Difesa, suona all'incirca nella maniera seguente: il fatto è che una bomba artigianale fa esplodere un blindato. Ragionevole conseguenza è [sic] che «Occorre verificare se sono necessarie altre misure. Questo fino a ipotizzare di dotare gli aerei di bombe nonostante questo sia ai limiti della compatibilità perché si possono infliggere perdite civili».
Raffinata arguzia intellettuale, si potrebbe pensare, fine ragionamento strategico o, forse (e più semplicemente, del resto), applicazione più che acrobatica di alcune regole logiche di base.
Perché, infatti, sentendosi annunciare "A", rispondere "7"? Detto con altre parole, perché di fronte ad un fatto come quello in questione rispondere con un'affermazione che potrebbe sembrare connessa, almeno a prima vista, ma che in realtà non affronta nessuna delle problematiche cardine messe in evidenza dall'evento stesso? E, soprattutto, come può quest'affermazione fare agenda, divenendo il vero punto di dibattito nazionale il giorno seguente all'avvenimento scatenante?
In questa vicenda, a mio modesto avviso, possiamo trovare tutti gli estremi del modello di pseudo-ragionamento politico che attanaglia l'Italia da ormai troppi anni e che, descritto in maniera molto grezza, consiste nel non affrontare, neppure a un minimo livello di razionalità, i problemi e le vicende nazionali. Si tratta semplicemente di annacquarle nell'espressione, ovviamente solo a parole, di una presunta retorica di un "immediato fare" destinata esclusivamente a entrare in fase con il sentimento popolare, ad acquetare i più bassi umori di quell'indistinta massa che è il consumatore italiano medio. Questo senza mai giungere al nocciolo della questione, che sia quello dell'avvenimento in sé o quello, ben più rilevante e complicato, delle cause prime e delle motivazioni profonde dello stesso. Senza dunque mai assumere alcuna valenza politica e senza assumere alcuna valenza pratica di risoluzione del problema (in fondo si tratta di sinonimi, perché altro la politica non è... ).

Noi italiani, infatti, inviamo gli alpini in un paese straniero in cui la guerra è realtà quotidiana dal 1979, in missione di pace. Li inviamo senza alcun obiettivo di politica estera o economica che non sia far piacere ad alleati di lunga data o voler continuare a fingere una difficile appartenenza al novero dei paesi che si possono permettere una proiezione militare oltre le proprie frontiere. Ma cosa ci facciamo in Afghanistan? Voglio dire, senza alcuna retorica, sappiamo davvero come e soprattutto perché ci ritroviamo in questo ennesimo scatolone di sabbia? Facciamo un dichiarato piacere alla coalizione militare cui apparteniamo? Aiutiamo i nostri alleati? Tentiamo una penetrazione politica o economica in Asia centrale? Vogliamo dare una mano a un paese che ne ha passate davvero troppe? Perché nessuno ritiene logico affrontare questa missione da un punto di vista geopolitico, economico o anche semplicemente logico?
Se il problema fosse solo militare o logistico, basterebbe inviare dei blindati più pesanti (ma anche le bombe, persino quelle artigianali, sanno aumentare di taglia e potenza), ma evitiamo per favore la scena pietosa in cui vengono a raccontarci in preda a viva emozione che saranno le bombe sugli aerei a fare la differenza. Come se non ci fosse già un aereo di qualche alleato, con tanto di bombe ovviamente, disposto a dare una mano in caso di bisogno. Questo prescindendo dal fatto che non saranno le bombe di un aereo ad aver ragione di un ordigno al suolo durante il passaggio di un convoglio e probabilmente neppure di chi le dispone. Ma continuiamo pure a non preoccuparci delle cause prime di quanto facciamo, continuiamo pure fingere di non vedere alcuna differenza tra realtà e il mondo fantastico in cui certi Ministri sembrano vivere e che si ostinano a commentare. Un interesse effettivamente, anche non solo psichiatrico, potrebbe davvero esserci. Come continuare a non vedere l'inadeguatezza di tutti i discorsi fatti sul tema pur di non toccare i veri tasti sensibili che potrebbero urtare la nostra sensibilità e persino riportarci con i piedi per terra, fino a vedere che esiste un mondo in cui siamo realmente costretti a vivere, e che poco ha in comune con quello che ci piace immaginare all'interno del calderone delle fantasiose dichiarazioni improbabili che ci avvolgono quotidianamente.
Ugualmente immerso in una realtà tutta sua, ma almeno più apprezzabile per via di (in)certi riferimenti storici un altro Ministro dei residui di questo governo, quello che dovrebbe occuparsi della nostra politica estera e che si lancia, con splendida e kitschissima retorica, in mirabolanti parallelismi tra gli alpini in Afghanistan e i garibaldini. Gli alpini sarebbero, infatti «I garibaldini del Duemila» che, come i loro antenati si batterono per l'unità nazionale, oggi si battono per «portare la pace nel mondo».
Anche qui, ovviamente, vuoto cosmico tra un elemento e l'altro, nessuna causalità che sia politica o anche solo strettamente relazionale tra i due fatti. Si parla per parlare, si utilizzano parole conosciute affiancandole e sperando che qualcuno possa immaginare a posteriori un ragionamento che non si è saputo fare in precedenza, ma si sa, gli altri sono sempre più intelligenti di noi e comunque, una volta fatta la dichiarazione per il telegiornale di servizio della sera si può stare tranquilli fino all'indomani.
Ecco, vorrei solo che qualcuno si alzasse in piedi a un certo momento, chiedendo al caro Ministro se questi alpini in fondo stanno proprio in Afghanistan a combattere contro i Borboni, e se per caso ci sono arrivati con le navi di Rubattino. Forse sarebbe stato più saggio immaginare un parallelo con La Marmora e la guerra di Crimea, ma a dirla tutta sarebbe stato in fondo complicato. Il Regno di Piemonte una politica estera ancora l'aveva.
Ripieghiamo allora sul fatto che l'Aspromonte potrebbe comunque avere dei tratti in comune col deserto afghano e speriamo che almeno questa volta non finisca come la precedente, perché tanti sforzi, apparentemente, non hanno prodotto i risultati che ci saremmo potuti aspettare. Auguriamocelo, almeno per il popolo afghano.

lunedì 11 ottobre 2010

Millenovantacinque - parte due: alle foci dello Yarmuk

Le sei frecce (iv)

di Niccolò Fattori

Tempo di caricamento 0,12 secondi. 704.000 risultati. È quello che succede usando Google per cercare "invasione islamica" (la umma). Finora nessuno dei siti esaminati, tra vaneggiamenti e riferimenti alle crociate, cita la battaglia dello Yarmuk, o Nicopoli.
Dovrebbero.
Informarsi per resistere.
Se non altro, ne trarrebbero degli esempi su cui riflettere, degli episodi da inserire nelle loro apologie o nei loro allarmatissimi articoli. Nello specifico, la battaglia del fiume Yarmuk fu combattuta nel 636 dall'esercito dell'imperatore romano Eraclio e dalle prime armate dell'Islam. L'esercito imperiale, spossato da una decennale campagna in Persia, fu spazzato via dai maomettani, che si impadronirono una volta per tutte di Siria, Libano e Palestina.
Settecento anni dopo, nel 1396, i centomila cavalieri cristiani radunati da Benedetto XIII furono sorpresi dagli ottomani e massacrati senza pietà alle porte di Nicopoli.
«Fu il primo episodio del secolare scontro tra Europa cristiana ed impero ottomano. Non fu un inizio felice» scrive il visconte di Norwich.
Lo Yarmuk e Nicopoli sono tappe, tappe poco conosciute della formazione di un complesso psicologico europeo, fiorito ed esploso nei secoli della rivoluzione industriale, che ha sempre più visto nel mondo musulmano, nell'oriente "l'altro", portatore di tutti quei difetti che il "nostro" progresso e la "nostra" civiltà hanno dolorosamente eliminato lungo i secoli.
Una fantasia orientalista di Giulio Rosati
Fonte: wikipedia.org
Così, man mano che l'Europa si arricchisce, il Levante diventa più povero. L'Europa cristianissima e impegnata nei reciproci roghi di calvinisti e luterani teme l'Oriente dissoluto. L'Occidente viziato da sé stesso approfitta di un oriente volitivo per improvvisare una ricerca dei propri coglioni smarriti.
I vizi siriani che facevano tremare di terrore e desiderio i proconsoli repubblicani pian piano scompaiono, le immagini art noveau degli harem ottomani sbiadiscono di fronte alle fotografie dei guerriglieri e degli imam incattiviti che alimentano a roghi di bandiere un furore anti-europeo destinato a sottomettere la nostra civiltà alla tirannia del loro membro metaforicamente eretto, nella mente di un novello Pietro l'Eremita.
Così, armi alla mano, l'Occidente reagisce.
on. Roberto Calderoli, l'inventore del "Maiale Day"
Fonte: ziubustianu.blog.katweb.
Si affida all' on. Calderoli, un Goffredo di Buglione bergamasco per sconsacrare il terreno destinato ad una moschea, facendoci trotterellare un coraggioso maiale giudaico-cristiano, con un pessimo gusto nel vestire.
Mette in guardia la cittadinanza osservante dai rantoli di un sociologo franco-algerino che vuole istituire "le brigate della fede musulmana".
Ci protegge dal pericolo islamico già profetizzato da Nostradamus: nel 1998 Roma sarà conquistata dai musulmani (meglio "ladrona" che maomettana?)!
Non è successo nulla nel 1998, e ci siamo potuti vedere in santa pace la vittoria francese ai mondiali.
Ma i mille parlamentari paranoici, ministri tragicomici e siti internet apocalittici non rappresentano che l'ultima manifestazione intellettuale (in più di un senso) di quel "complesso del crociato" che costituisce la prova al tempo stesso più latente e più tenace di quelle radici comuni europee tanto strumentalizzate dai politici.
Mettendo in campo personalità più illustri ed argomentazioni più raffinate: un nome a caso è quello di Alexis de Tocqueville, fulgida eccezione "agnostica" nell'universo liberale degli intellettuali mangiapreti del diciannovesimo secolo.
Tocqueville fu il classico cristiano educato da religiosi che "entra nel mattatoio e ne esce vegetariano", attanagliato da crisi di fede tra l'età adulta e l'adolescenza. Ebbe il buon senso di non dimenticare mai come una fede nel trascendente, qualunque fosse, potesse fornire una sorta di "terza gamba" (il
Alexis de Tocqueville, filosofo francese dell'800
Fonte: diagoal.blogspot.com
termine sembra andare di moda, oggi) alla struttura, ancora per l'epoca sperimentale, dello stato liberale. Fu un acutissimo analista delle meccaniche sociali e culturali del suo tempo, che seppe prevedere, complice la natura aristocratica, alcuni dei rischi umani insiti in un sistema democratico. Sono molto interessanti anche alcuni dei suoi studi sulla religione, specie quelli attorno all'Islam, raccolti sul campo durante diverse permanenze in Algeria.
I suoi giudizi più severi vengono fuori nella corrispondenza privata, in questo caso una lettera a Richard Milnes. Era il maggio 1844, sono gli anni del Fardello dell'Uomo Bianco «Voi [Milnes; n.d.N.F.] mi sembrate tornato dall'Oriente come Lamartine, un po' più musulmano di quanto non convenga. Non so perché ai nostri giorni molti spiriti diversi mostrano questa tendenza. [...] Nella misura in cui ho conosciuto meglio questa religione, ho meglio compreso che è soprattutto da essa che deriva la decadenza che attenta sempre più sotto i nostri occhi il mondo musulmano. Quando Maometto non aveva avuto altro che la colpa di unire intimamente un corpo d'istituzioni civili e politiche ad una credenza religiosa, in modo da imporre al primo l'immobilità,[...] ne ebbe abbastanza per destinare in un momento i suoi seguaci subito all'inferiorità ed in seguito alla rovina inevitabile. La grandezza, e la santità del Cristianesimo è di non aver tentato che di regnare nella sfera naturale delle religioni abbandonando tutto il resto ai liberi movimenti dello spirito umano».
Pur nell'innegabile acume (Tocqueville ascrive la sostanziale immobilità delle istituzioni politico-religiose musulmane alla diretta derivazione di queste ultime dal trascendente) lo storico francese mostra nell'ultima frase quanto sia radicata la convinzione di un Europa da sempre Civile, da sempre Buona, in cui dall'alba dei tempi Trono e Altare convivevano in una felicissima separazione domestica. Sembra che la religione, messasi da parte in modo completamente autonomo, abbia abbandonato la Storia al libero gioco delle istituzioni secolari.
Non è vero.
Nella sua grandezza, Tocqueville dimentica la "dottrine delle due spade" (formulata da Papa Gelasio nel 494: i poteri del Papa e dell'imperatore erano entrambi dovuti a Dio, mettendo di fatto l'imperatore sotto l'autorità ecclesiastica); un Papa, Giulio II, in prima linea durante l'assedio di Bologna; i vescovi feudatari dell'età di mezzo e i cardinali statisti dei secoli barocchi. Ci fa capire che il cristianesimo ha contribuito allo sviluppo dinamico dell'Europa, ma dimentica che questo dinamismo avrebbe avuto luogo anche grazie agli slanci ideali promossi nei secoli dai potentati di ogni ordine e grado che riunissero nelle loro mani i poteri del secolo e dello spirito. È stata l'inscindibile presenza della fede cristiana nei secoli a muovere e ad agitare il vecchio continente.
Sono stati I cristianesimi a dividere l'Europa, a porre le basi per la divisione razzista in mediterranei e germanici ancora presente nei manuali militari di fine '800, a creare le tre macroregioni "qualitative" in cui è classificata l'UE, le varie Europe occidentali, meridionali ed orientali, in cui gli stati entrano ed escono a seconda della propria ricchezza e di vaghi criteri "democratici".
Il Cristianesimo, quello antico, quando ancora ce ne era solo uno, forse due, ha inculcato nelle menti degli europei il furor crucesignatus da cui deriva in prima istanza la convinzione di essere nel Giusto, che li ha portati in cinque secoli ad avere le mani in pasta in tutto il mondo, dopo e durante gli innumerevoli conflitti interni.
Ma ora, ora che l'Europa ha finalmente trovato pace ricchezza ed unità, il "complesso del Crociato" ha lentamente perduto vigore, fino a diventare invisibile, latente. Ma c'è e sempre ci sarà un "altro" cui il nostro inconscio ascriverà i nostri peggiori vizi, qualcuno che, antitetico al nostro modo di pensare, sarà capace di scatenare paure incontrollabili: siamo tutti crociati.
Sia pure in nome del Papa, della consustanziazione o delle libertà democratiche.

domenica 10 ottobre 2010

Abbiamo perso la memoria del silenzio

Il fucile (vi)

di Gian Piero Travini

Breve intervento.
Solitamente provo a parlare di politica, ma piuttosto che soffermarmi sulla divertente nomina di Romani a ministro per (la semplificazione del)lo Sviluppo Economico, mi sostituisco all'Isegoreta e provo a ricordare due visioni che abbiamo perso.
Il silenzio.
Gli applausi alle bare con dentro corpi gonfi d'acqua, in uno stadio che sa tanto di mausoleo mediatico, servono solo a confermare che la "corruzione" di una vicenda tragica ha radici profondamente piantate nell'animo degenere di un'Italia che cresce in un'ignoranza e in un'accidia spaventose.
Prendo in prestito un pensiero di Stefano Andreoli, meglio conosciuto come Stark nel mondo dei blogger: «È come se il silenzio, in commemorazioni così poco "private", ci facesse orrore». Ci fa orrore perché è nel silenzio che ci ricordiamo che ognuno di noi è fallibile. Che ognuno di noi è giudicabile. La gara a chi applaude di più, all'addolorato, la gara a chi "partecipa" di più al prime-time è seconda solo a quella per l'indignazione e la condanna.
Abbiamo perso la memoria del silenzio.
Gli american gods nostrani, per rubare da Gaiman, hanno creato il bisogno di divenir notizia. Anche a fin di bene. Di lasciare che il riflesso di noi stessi, filtrato dal media e catalizzato da milioni di nostri simili, si costituisca parte di noi stessi. Oltre Jung. Oltre Baudrillard.
Abbiamo permesso che un concetto semiotico usato per spiegare un fenomeno, l'iperrealtà, divenisse parte di noi stessi e continuasse a fungere da modello. Abbiamo esasperato noi stessi. Non ci è andato bene d'esser somma degli "io" percepiti dagli altri. No. Abbiamo chiesto al media, al Behemoth della passività, di imporci una sua visione semplificata di quello che gli altri conosceranno di noi stessi.
E la madre è dignità incrollabile. Quando in realtà non ha avuto il tempo, ancora, di riflettere a pieno su quello che è accaduto. E il vero dramma è che ha legittimato lei stessa tutto. Ha scelto di entrare nel prime-time. E il prime time ha concesso la stessa pietà che lo zio ha concesso alla nipote. E sta abusando della madre, ora che è morta dentro, come lo zio ha abusato della nipote, morta e basta.
Questo è il mostro che dal 1981, da Vermicino, la nostra ignoranza ha contribuito a generare.
Un mostro deviante e deviato.
Un mostro che continua a generare aborti immondi e continua a servirceli creando altri mostri per sfogare i nostri istinti rabbiosi invece che concentrarci sul vero male.
Il male di vivere.
Il male del comune più povero della provincia di Taranto, secondo uno studio del Ministero dell'Interno del 2006. Un comune in crisi demografica, che fronteggia ancora la modernità con le acque nere scoperte e che da anni cerca di imporsi sul vicino comune di Manduria per l'annessione di parte del suo territorio per ottenere uno sbocco utile al turismo sullo Ionio.
E se la "bestia", l'orco, il "mostro" o come vi pare chiamarlo nasca in condizioni di tragedia, poco importa. Diamolo al boia.
Il boia mediatico non è abbastanza, per far tacere il male dell'impotenza dentro di noi.
La cura del dolore è meglio della prevenzione della presa di coscienza.
Sono passati 500 anni dalla Confraternita della Misericordia del Rione Cattedrale di Asti, da quando il più grande sentimento cattolico è stato sdoganato dai laici, ripulito dagli orpelli di falsi papismi, e integrato nei diritti doveri dell'individuo. E 500 anni sono troppi.
Abbiamo scordato cosa significhi il perdono laico.
Abbiamo scordato cosa significhi riflettere in silenzio sull'effetto, ma anche agire con vigore sulla causa.
Stiamo prendendo la via più facile.
Stiamo lasciando che chi crea mostri faccia di noi mostri più tremendi. Mostri che NON pensano per scelta.
La nostra tragedia interiore, la passività che stiamo mostrando ad un secolo di pensiero post-moderno, ci sta consumando.
Ed è solo colpa nostra se quello che rimane è uno stadio che applaude, un mostro alla gogna e un cadavere sodomizzato sotto terra.
Perché ci siamo scordati che è solo nel silenzio che lo stadio smette di esistere, che il mostro diventa il malato, ignorante, colpevole uomo Michele Misseri e che il cadavere sodomizzato ritorna la ragazza Sarah Scazzi. Vittima tre volte di chi ha abusato e abusa della sua vita.
Del suo assassino.
Del dio media.
Di noi stessi.
Questa volta non sparo nessun colpo: provate a spararlo voi, se ancora avete coscienza di ciò che siamo.