venerdì 1 ottobre 2010

Millenovantacinque - parte uno: la sindrome di Dorileo

Le sei frecce (iii)

di Niccolò Fattori

Al tavolo di un ristorantino turco, io e Ceyda stiamo mangiando del kebap di pollo, condito con pomodori, insalata ed un bicchiere di Ayran.
Ceyda è una ragazza che ho conosciuto un paio di sere prima in un pub. Ha il fisico ben tornito di una pallavolista amatoriale, lo sguardo sveglio e dei bellissimi boccoli neri che le cadono sulle spalle, incorniciando un viso dai lineamenti forti ed i colori scuri. Tra un morso e l’altro, facendo ben attenzione a non parlare a bocca piena, conversiamo discretamente in italiano, lingua di cui ha una buona padronanza.
Inevitabilmente, si finisce a parlare di politica. Nonostante siano fascisti, dice, e lei si professi di sinistra, vota CHP (Partito Repubblicano del Popolo, e maggiore forza dell’opposizione) e odia il primo ministro Erdogan. La cosa non mi stupisce, conoscendone l’estrazione altomedioborghese.
Quello che davvero non mi aspetto, è il suo commento sull’occupazione dell'Iraq.
"Studi Relazioni Internazionali: dovresti sapere perché Bush ha invaso l'Iraq... ". Non faccio in tempo a rispondere che è lei a continuare: "Per creare uno stato curdo e distruggere la Turchia, ovviamente".
"Scusa?" la mia reazione è immaediata.
"Sai, non ho nulla contro i curdi, sia chiaro, mio padre era di Diyarbakir. Però, se mi domandi cosa penso del conflitto nel sud-est, beh, è chiaramente una manovra per dividere il paese. Anche in Iraq, gli americani vogliono staccare il nord curdo e aiutare il PKK per indebolirci. Non sarebbe la prima volta. Gli occidentali ci hanno divisi, ci hanno invasi, ma noi abbiamo combattuto, e li abbiamo cacciati via".
Non so cosa ribattere. Vista la natura più o meno galante dell'incontro, schivo l'argomento e le chiedo qualcosa su suo padre, promettendomi di approfondire la tematica.
Pochi giorni più tardi, un’altra ragazza, Zeynep, mentre mi sta aiutando a ripassare certi costrutti grammaticali, mi chiede se sono cristiano, e cosa mi ricordo della visita del Papa. Lei non è come Ceyda, la sua è una famiglia anatolica, di Konya, ed il velo che porta sui capelli la dice lunga sul suo orientamento religioso. La risposta è una scrollata di spalle, e un vago cenno: "La visita del Papa in Turchia? Dovrebbe essere stata quando hanno ammazzato quel prete a Trabzon, se non sbaglio".
Non sbaglio.
Il povero prete, don Andrea Santoro, che di colpevolmente comunista aveva solo il nome, fu assassinato nel febbraio 2006 da un giovane Bozkurt, uno dei Lupi Grigi, i famigerati ultra-ultra-ultranazionalisti turchi che ogni tanto fanno capolino nelle pagine della cronaca.
"Beh, mio padre dice che sono stati i cristiani a complottare l’omicidio, per far ricadere la colpa su un turco - continua Zeynep - personalmente, non ci credo. Però per molto tempo, i giornali hanno continuato a pubblicare teorie di cospirazioni antimusulmane ed antiturche".
"Come quando l'Inter ha giocato a Istanbul indossando la maglia con la croce rossa?" le faccio eco, ricordando della partita con i Sarı Kanaryalar (Canarini Gialli) del Fenerbahçe nel novembre del 2007. "Più o meno. Vedi, checché ne dicano i repubblicani, a molti turchi l'occidente non va giù. Il cristianesimo è, secondo alcuni, solo una delle armi che l'Europa sta utilizzando per piegare la Turchia, non essendoci riuscita con la guerra. Fuori dai mercatini turistici di Istanbul, lo straniero, in astratto, quando non chiede ospitalità, è il cavaliere crociato venuto per conquistare il paese".
"Deh, sarà per questo che qui in Turchia piaccio alle donne!". Rido di gusto. Lei un po' meno.
L'atteggiamento cortesemente paranoico di Zeynep e di Ceyda nei confronti del resto del mondo è radicato nella mentalità turca quasi quanto il senso di ospitalità: sono due facce della stessa moneta, l'uno derivante dal profondo orgoglio e senso di rivalsa che ancora infiamma i cuori dai giorni della guerra di indipendenza, l'altro nato dalla persistenza di tradizioni e stili di vita basati sulla centralità della c.d. "famiglia tradizionale" e dallo storico ruolo dell'Anatolia come ponte tra Asia ed Europa.
Ancora più incuriosito e un po' turbato, mi dirigo verso casa con l'intento dichiarato di saperne di più a proposito delle calunnie post-mortem rivolte dai giornali alla buon'anima di padre Santoro, ridacchiando sulla reputazione di crociati che ci siamo guadagnati dal 1095. Così, frugando tra i bagagli, sotto l'elmo, la croce di pezza rossa da cucire sul mantello, le cronache di Guglielmo di Tiro e la spada che giurai di piantar nel cuore del feroce Saladino, trovo un bell'articolo del 2006 di Michelangelo Guida, docente al dipartimento di Pubblica Amministrazione dell'università di Fatih, ad Istanbul: "The Sèvres Syndrome and “Komplo” Theories in the Islamist and Secular Press".
La tesi è semplice: i mezzi di comunicazione in Turchia, specie quelli più politicamente orientati, agiscono da cassa di risonanza della paranoia antioccidentale della gente comune, amplificandola fino a farle raggiungere livelli da commedia plautina.
"Bella scoperta - mormorerà un lettore disincantato - veniamo da un paese dove si pubblicano La Padania e Il Foglio, dove un sottosegretario strappa il velo ad una donna musulmana il giorno del Bayram, che è un po' come pisciare sul presepe la notte di Natale".
Ineccepibile.
Ma la cosa va oltre. Va oltre il semplice spacciar i rantoli di un tunisino ubriaco che giura di uccidere tutti gli italiani, che lo odiano, per un documento programmatico di Al Quaeda: dietro la tragedia di padre Santoro, i radicalissimi imam del giornale Gerçek Hayat, sia chiaro, una lampante eccezione nel mondo editoriale anatolico, vedono la punta di un iceberg di complotti e cospirazioni antiturche. Un breve estratto da un articolo pubblicato nella testata, "Rahibe Sıkılan Kurşu" (La pallottola che ha ucciso il prete) e ripresa da Michelangelo Guida «Si possono trovare un sacco di ragioni sull'omicidio di don Santoro, ma il solo aspetto degno di nota è la sua collocazione temporale appena dopo la pubblicazione delle vignette denigratorie nei confronti del Profeta. Tutto quello che sta succedendo nel mondo ci mostra che in un paese dove nessuno ha mai pensato di mettere in agenda il problema dei missionari, il fatto che sia stato scelto un sacerdote cattolico piuttosto che uno protestante potrebbe non dare l'impressione che si sia trattato di un piano ben architettato. Comunque, le caratteristiche dell’obiettivo designato e la tempistica dell'omicidio, continueranno ad essere discusse a lungo».
Trabzon è una città di trecentomila abitanti. Un alto costo della vita, un'altissima disoccupazione, la presenza di innumerevoli vittime del terrorismo curdo e tanti altri fattori possono risultare un ambiente fertile per ideologie estreme, come ha fatto notare il giornale Aksiyon. Ma no, il povero sacerdote di Trebisonda è stato vittima non tanto delle pallottole di un estremista sedicenne quanto del complotto Cristiano per accusare la Turchia di terrorismo.
Stessa storia per la visita del Papa.
Il 14 settembre 2006, Benedetto XVI ebbe di nuovo modo di mostrare al mondo le proprie innate capacità di comunicatore adoperando la voce dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo per dire una cosa giusta (centrale nel discorso di Ratzinger è l’armonia tra fede e ragione) usando le parole peggiori, ovvero «Mostrami ciò che Maometto ha portato di nuovo nel mondo, e vi troverai solo cose cattive e disumane», con una tempistica da commedia trash anni '80 (erano i giorni delle vignette satiriche contro il Profeta).
Ricapitoliamo: un Papa cattolico usa le parole di un Imperatore bizantino per dare addosso al Profeta musulmano nei giorni confusi dell’estate 2006.
Geniale.
Necmettin Erbakan, teorico dell'Islam politico
Fonte: e-turchia.com
Seth MacFarlane non avrebbe saputo fare di meglio.
Nonostante l'inevitabile valanga di commenti, a Benedetto XVI non mancò il fegato per fare una visita pastorale ad Istanbul, nel novembre dello stesso anno.
Questa volta è Necmettin Erbakan, leone dell’Islam politico, che ci fornisce un pezzo da manuale di retorica della paranoia in "Medeniyeti Islâm'a Borçlular", sempre riportato da Guida «È chiaro come il sole che il Papa non stia venendo in Turchia con in cuore le sorti del popolo turco. Al contrario, infischiandosene del popolo turco, il suo vero obiettivo è visitare il Patriarca, l'autorità religiosa dei cristiani ortodossi, per rafforzare l'ecumenismo e riportare Bisanzio a nuova vita. Sta arrivando per dare una mano ai razzisti imperialisti, che complottano contro il mondo islamico [...] È solo una parte del piano che hanno in mente per dividere il nostro paese e la nostra comunità, per farne un boccone, mangiarla, annientarla».
Insomma, un cocktail di frasi ad effetto, teorie della cospirazione, inni alla cultura immortale del popolo, minacce alla comunità ed identificazione del male assoluto con lo straniero, con un sistema religioso differente.
Mancano solo le camicie verdi.

mercoledì 29 settembre 2010

Il realismo intellettuale di Campi

Il fucile (v)

di Gian Piero Travini

Ho conosciuto Alessandro Campi quando ho iniziato a lavorare alla mia tesi. L'ho inserito volentieri in bibliografia dopo che ho letto alcune sue elucubrazioni abbastanza "datate" su Schmitt e Gianfranco Miglio, che l'amico Nicola Bardasi ben conosce, per poi dedicarmi a "Il ritorno (necessario) della politica", un signor libro di real politik in chiave "interna" piuttosto fondamentale nell'analisi politica del momento critico che ben prima del 2002 in cui il libro è stato scritto si affacciava. E continua ad affacciarsi.
Non nego che parte di questo blog nasca sull'onda del tema di un ritorno alla "centralità della politica" che Campi continua a predicare dalle colonne digitali di FareFuturo. Con FareFuturo, come avrete facilmente intuito leggendo molti dei nostri articoli, abbiamo poco a che spartire, considerando parte dei collaboratori e delle "menti espresse" dalla fondazione come nocciolo di quel liberalismo-chic che cerchiamo di controbattere con la logica costruttiva di un liberalismo più "terribile", nell'accezione parmenidea del termine. Più critici, dunque, soprattutto con chi dietro la critica si nasconde ma che in realtà non fa il passo avanti che noi auspichiamo.
Poche eccezioni, in queste realtà. Le principali sono la professoressa Sofia Ventura e, appunto, Alessandro Campi.
Alessandro Campi, direttore scientifico di FareFuturo e
docente di Storia del pensiero politico a Perugia
Fonte: mpalumsa2010.blogspot.com
La ragione è semplice. Campi non è un politologo attivista. Non è un politico. Non è dunque un politicante. È, prima di tutto, uno storico e un analista. Così come lo era 'Ted' Carr quando analizzava i fallimenti del liberalismo idealista di Woodrow Wilson (e, come Carr, condivide la dicotomia di liberale E realista). Campi inizia a cogliere i primi segni di cedimento del liberalismo "cerchiobottista" di chi lo circonda. Perché è uno storico. Perché è dotato di spirito critico. Ed è capace di farlo funzionare.
E non posso fare a meno di esaltarmi leggendolo per caso su Il Foglio.
Non fa nomi.
Non indica i "colpevoli".
Si limita a rilevare una condotta errata di Gianfranco Fini e a rilevare comportamenti che l'ala "populista" di Futuro e Libertà per l'Italia sta mantenendo. Con un perfetto esercizio logico Campi esalta le problematiche della terza gamba del governo Berlusconi IV, comportamenti che già altri avevano rilevato, purtroppo con modi, intenti e parole meno limpide di quelle del direttore scientifico di Futuro e Libertà.
«[A Fini; n.d.G.P.T.] dovrebbe riuscire una manovra che restituisca senso politico a questa aspra contesa che si è trasformata in una questione personale dalle sfumature poco limpide. Dal punto di vista dell’ex leader di AN il risultato lo si può ottenere ritornando a declinare i temi culturali del cosiddetto "finismo", cioè la molto evocata "conversione di Fini", attraverso una nuova formazione politica che, pur all'interno del centrodestra, si ponga in leale concorrenza (non antitesi) con il berlusconismo e la sua interpretazione dei rapporti sociali e della politica». La via che traccia è semplice: dimissioni di Fini dalla Presidenza della Camera per avere più libertà di manovra, di espressione e di tempo, evitando attacchi puerili ma mediaticamente efficaci. Tra le righe emerge una velata critica al discorso di Mirabello, critica che già abbiamo avanzato su questo blog: la Presidenza della Camera è il principale blocco che personalmente, non mi permette di considerare Fini un interlocutore politico valido.
«Creare e guidare direttamente un partito significa scegliere con accuratezza gli uomini e la classe dirigente, significa parlare in chiave politica, e non solo istituzionale, con il tuo potenziale elettorato. Fare politica da presidente della Camera, di fatto, è un freno». Campi è chiaro: distaccarsi definitivamente dalle logiche grette atte a guadagnar tempo del gruppo parlamentare per iniziare a lavorare su quel 7% che i sondaggi accreditano al plausibile soggetto politico finiano.
Poi, Campi entra nel merito retorico di una piccolezza su cui avevo riflettuto ascoltando il discorso di Fini sulla vicenda monegasca: «Guai se Fini si dimettesse perché spinto dalla risibile e forsennata campagna sulla casa di Montecarlo: è uno scenario che non esiste e che è stato persino un errore adombrare da parte sua nel video messaggio di sabato scorso. Non c'è nessuna proporzione, nessun legame comprensibile, tra la banale faccenda della casa monegasca e l'enormità delle sue eventuali dimissioni. Se mai Fini decidesse di fare un passo così importante, dev'essere ispirato da ben altro: dalla sua storica battaglia per un centrodestra migliore. Un sacrificio dettato da ragioni politiche, dalla decisione responsabile e coraggiosa di mettersi personalmente a capo di una formazione politica capace di recuperare e rilanciare il senso di un percorso culturale che viene da lontano».
Il fattore tempo gioca a sfavore di Fini. Come gioca a sfavore del centrosinistra. Interrompere prematuramente la parabola del berlusconismo avrebbe l'effetto opposto di ridarle slancio, grazie al clamore suscitato da un eventuale "tradimento" di Fini e all'ondata di consenso della Lega, mandando a carte e quarantotto il gioco di Gianfranco.
Affascinato dall'analisi di Campi, che personalmente condivido totalmente, azzardo un'ulteriore quanto naturale evoluzione: dimissioni di Fini da presidente della Camera, creazione e consolidamento del nuovo partito, possibilmente astraendosi da certi residuati bellici dell'inutilismo berlusconiano (che non ha nulla a che fare con l'immobilismo berlusconiano: nel PDL quelli utili se li sono tenuti TUTTI), attesa dell'inevitabile crisi di governo che Bossi potrebbe aprire a fine anno rendendosi conto dell'impossibilità numerica anche solo per impostare definitivamente il federalismo e poi ci si giocano tutte le possibilità alle elezioni, sperando che qualcuno introduca nel programma elettorale come prima riforma quella elettorale in senso uninominale, ricordandosi che nelle democrazie con i coglioni le riforme elettorali si fanno immediatamente DOPO le elezioni, e non poco prima per sparigliare in un senso o nell'altro la contesa.
Ma cosa rimane di ciò che Campi ha segnalato?
Rimane che esistono persone all'interno di Futuro e Libertà che potrebbero impedire a Fini di commettere gli "errori" giusti. Di fare vera politica.
Uno che mi viene in mente? Il solito.
Alle 18.02 di ieri pomeriggio, dopo le prime dichiarazioni al termine del vertice di maggioranza, l'onorevole Italo Bocchino dichiara che il voto sulla fiducia «È un modo che salutiamo favorevolmente perché fa appello, e consente di esprimersi, a tutta la maggioranza. La fiducia è la presa di distanza dalla politica dell'autosufficienza praticata fin qui, una presa di distanza che è esattamente quello che noi volevamo. Quindi direi che in generale è un passo avanti sulla strada dell'intesa. Porre la fiducia rappresenta una tesi, quella di appellarsi a tutta la maggioranza, che valutiamo positivamente». Alle 22.27, probabilmente sotto l'effetto del Vinavil e Ranxerox come pochi, il buon Bocchino si scatena a Ballarò: «Berlusconi ha tirato fuori l’operazione fiducia perché gli consente di tirare a campare e di portare avanti la legislatura ma dimostrerà che c'é la "terza gamba" e che è determinante per la tenuta del governo».
Campi e l'onestà intellettuale sul Foglio.
Bocchino a raccontarci delle sessantaquattro società off-shore di B. quando domani gli darà la fiducia, col pretesto retorico che la «fiducia al governo è ben diversa dalla fiducia a Berlusconi» in diretta televisiva.
La scelta è dannatamente facile.
BANG!!!