martedì 19 ottobre 2010

Dream a little dream of Him...

Il fucile (vii)

di Gian Piero Travini

Dream a little dream of me...
Non che B. assomigli a Mama Cass. E sicuramente un album dei Mamas and the Papas lo sfangherei. Un album di B. dovrebbe avere almeno una copertina accattivante. Quindi pieno di figa (possibile) e senza di lui (la vedo dura).
Dream a little dream of me, Gianfranco. Questo il riassunto di un'intensa settimana politica, conclusasi stasera, dove l'evento portante è stata la piangina di Gianfranco su Schifani, bloccata dal presidente del Senato senza nemmeno troppe polemiche, chiusa da Alfano ieri pomeriggio, dopo un breve conciliabolo sulla legge sulla giustizia.
Vorrei potervi dire che i deliri istituzionali, o politici, o da andropausa (o tutti e tre) di Gianfranco siano dettati da una fotta incredibile di andare a votare. Vorrei poter dire che non gioca a fare il casinaro solo perché non ha la minima idea di come impostare una politica inter-parlamentare con le forze della resistance contro B. Vorrei poter dire, infine, che in realtà ha un piano bene in testa. Cioè, a parte quello di fare campagna elettorale perpetua da Presidente della Camera. Ma non posso.
Però posso dirvi che la querelle Schifani-Fini sulal riforma elettorale ha matrice molto più Antigua.
Tra i due non c'è mai stati simpatia. Nemmeno a me ispirerebbe simpatia Schifani. Ma nemmeno a voi. Quindi capirete il povero Gianfranco, quando si sono scannati al congresso fondativo del PDL attorno al DDL sul testamento biologico. Era marzo del 2009 e le cose sembrava andassero benino. Ovviamente, i brillanti opinionisti si bevevano le intenzioni di B. come definitive e Fini appariva il vero successore, mentre Tremonti raccoglieva le ovazioni da tutti i delegati senza che nessuno lo considerasse.
Ma sto divagando. L'essenziale è capire che i due non si amano.
Gianfra scappa fuori con la presunzione di spostare il dibattito sulla riforma elettorale dal Senato alla Camera. Ovvero dalla camera dove i suoi voti di FLI contano come la carta esci gratis di prigione del Monopoly mentre si gioca a Risiko, a quella dove potrebbe fare la differenza. Adducendo l'immobilismo del Senato e l'impossibilità di approvare la riforma.
Allora. Prima di tutto QUALE riforma? Secondariamente, CHI LA VUOLE? Tanto la prima, quanto la seconda, passano dall'inquilino arcano di Montecitorio. Gianfranco vuole una riforma uninominale in senso proporzionale perché, come leader di un neo-partito, strapperebbe certo più seggi anche con percentuali risicate (e, il fatto che faccia tanto casino, è chiaro indice che siamo lontani parecchio dal 9% che si aspetta). Schifani spiega a Gianfranco che le due proposte di riforma sono depositate al Senato e da lì non si schiodano. Gianfranco non può che ammettere la correttezza ai sensi dei regolamenti parlamentari di Schifani, ma poi, come un bimbo sgamato dopo una marachella, prova a giustificarsi ribadendo che il Senato non la approverà mai, quindi bisogna spostarla alla Camera, adducendo un problema politico.
Capiamoci bene.
Il Presidente della Camera chiede che la riforma elettorale che avvantaggerebbe il suo partito passi alla sua camera dove potrebbe tentare una spallata alla maggioranza con la quale è stato riconfermato onorevole, il cui primo partito è quello che ha abbandonato adducendo problemi politici. Quando il Presidente del Senato, suo superiore, lo manda elegantemente a cagare, il Presidente della Camera si PERMETTE di dire che nella camera non di sua competenza ci sono dei problemi politici.
Il problema politico, in effetti, c'è. Ed è decisamente suo.
Dream a little dream of me...
Ma perché Gianfranco ha così fretta di sbloccare la riforma?
Perché sa qualcosa che noi non sappaiamo ancora. O, meglio. Sa qualcosa che noi sappiamo solo dalle 19.07 di oggi.
A quell'ora viene infatti votato il "sì" all'estensione della copertura del lodo Alfano anche retroattiva. Con il voto dei senatori finiani.
Tralasciando dispute sul lodo in sé, da cui mi tengo ben lontano perché ho intenzione di godermi quel poco di vita serena che mi rimane, vi dò la mia interpretazione sul perché B. e Alfano tentino un azzardo del genere, ben sapendo che Fini e i suoi colonnelli si opporrano.
Al senato l'appeal di Fini è inutile e, probabilmente, anche poco vincolante sui suoi senatori. Ma la partita va giocata alla Camera, dove il testo verrà discusso.
Alla Camera B. rischia di rimanere sotto. Dopo l'immediato smarcamento di O' Pisolo, che ha dichiarato che non si pronuncerà su una legge costituzionale, probabilmente bloccato anche dalla stessa Corte, due possibilità: o Fini vota a favore dell'emendamento Vizzini e la legge passa con la retroattività, sputtanandosi completamente dopo mesi e mesi di proclami e sancendo di fatto la sua fine, cassandosi la bocca una volta per tutte dimostrando di essere obiettivamente un cagnetto fedele, solo un po' scemotto; o vota contro e la maggioranza eletta và a casa. E B. punta proprio a quello.
on. Gianfranco Fini e on. Angelino Alfano
Fonte: static.sky.it
La riforma Alfano è BASILARE per il suo Governo, un cardine. Se non trova la maggioranza lì, adducendolo come uno dei cinque punti cui richiese la fiducia il mese scorso, chiamerà nuove elezioni con un certo peso politico. Facendo la figura del "tradito". Piangendo per tre mesi di campagna elettorale contro Fini. Annullandolo.
L'incognita è sempre quella, però: l'oligarca di gabinetto. Il vero potere dietro B., ovvero Tremonti, l'unico che può mettere d'accordo abbastanza anime politiche per traghettare la legislatura fino alla fine.
Ma ormai, pare che B. sia deciso a giocarsi il tutto per tutto, nonostante solo qualche giorno fa minacciasse puerilmente di smettere di governare a tratti e a tratti facesse il papà buono mettendo pace tra Schifani e Fini.
Fini temeva questa situazione, perché Fini è un ottimo politico. A livello teorico.
Nella pratica sta già iniziando a commettere errori grossolani. Ad essere prevedibile e a non prevedere
Non sono d'accordo con le cassandre che promettono la fine di FLI, probabilmente gelosi perché l'organizzazione sta dando grandi possibilità e visibilità a molti giovani e molte anime che, altrove, sono incancrenite come piccoli tumori immobili. Eppure, qualcosa scricchiola paurosamente.
La base c'è, ma manca il vertice: Fini non è abituato da solo, e il peso politico di Bocchino e Granata è impalpabile, e non sono le molteplici voci dell'intellighenzia liberal-chic e del vero nocciolo liberale interno, esiguo e comunque in conflitto con la stragrande maggioranza di chi si apre la bocca all'inverosimile per far uscire grandi parole, che possono aiutarlo. Potrebbe cogliere un'occasione, quella del giro di vite nel PDL, per offrire un nuovo porto a vecchi amici.
Ma poi, che figura ci farebbe?
Ah, già. Quella della vittima delle circostanze. Quella del disattento.
Ma non sarebbe una novità.
Dream a little dream of Him
BANG!!!

domenica 17 ottobre 2010

UvAmara

La parola ai testimoni (ii)
di Luca Vescovi*

Autunno.
Il rosso delle foglie e l'imbrunire dei vitigni sanciscono il termine del periodo della vendemmia. Quest'anno più di altri è stata particolarmente sofferta da piccoli produttori.
Con l'amaro in bocca mi accingo a vedere ogni anno decrescere la remunerazione del "raccolto" rispetto richieste sempre più costrittive ed addirittura un rincrescersi dei costi.
Spesso sento dire: "Ne vale la pena?". Oggettivamente a memoria d'uomo, facendo un balzo indietro di vent'anni, ricordo il momento della vendemmia come un momento di grande festa: le donne preparavano taglieri di affettati, pane, formaggio, vino per la pausa del mezzogiorno consumata al di sotto delle pergole o su tavole improvvisate ed imbandite. Eserciti di parenti ed amici che si ritrovavano in questa giornata per celebrare il raccolto. L'odore dell'uva, le mani appiccicose. Viti cariche di grappoli lucenti...
Da allora, una sorta di maledizione.
Un gioco di speculazione al ribasso che vede deteriorarsi gli sforzi di chi produce in fasce collinari che vanno da 200 a 700 metri sul livello del mare, terreni in pendio, calcarei, dove la vite è bassa e la raccolta avviene a mano e trasportata solo alla cantina con il trattore. Eppure la soglia dell'euro al kg pare solo un lontano ricordo. Oggi ci si posiziona sui 55 euro/quintale per la produzione di chardonnay. Con una produzione di quaranta quintali, ammettendo che l'uva sia conforme al disciplinare del Consorzio, si andrebbe a percepire 2200 euro, se il Consorzio fosse in attivo, con l' impossibilità di andar a vendere presso altri consorzi il proprio prodotto se non pesantemente deprezzato, o addirittura rifiutato. Quando si tratta di pagare, i bilanci sono sempre in rosso ed i soci devono pagare una parte del percepito come "sanatoria " del debito... Una burocrazia allucinante.
Di quel guadagno lordo di cui sopra, tolte le spese di gasolio, tolte le spese di trattamento delle vigne, almeno sette durante la coltivazione e del costo di minimo un centinaio di euro l'una, si va ad assottigliare di molto l'esiguo compenso da cui ormai non si vanno nemmeno più a calcolare le ore di lavoro che ci si mette. Durante le vendemmie vengono fatti controlli a tappeto e le pratiche per regolarizzare dei lavoratori per le stesse fanno diventare il rurale e burbero contadino, un burocrate del superfluo... E questo fa male a chi, magari, deve fare marcire la propria uva sui vitigni poichè il prezzo è così declassato da non permettergli matematicamente di andare in pari con un'eventuale vendemmia. Altri sono costretti a rimuovere picche non mature per avere un minor raccolto con maggior gradazione, altri sono vessati dall'egemonia dei consorzi che si vedono accettare o meno quantitativi di prodotto per ripicche o motivazioni assurde. Sarebbe urgente che la Regione Trentino, ed anche Roma Capitale non dovrebbe esserne del tutto estranea, convochi un tavolo per trovare nuovi strumenti per i contratti, e che venga fissato un prezzo su lungo periodo che garantisca un "reddito": non si può partire a produrre con l'angoscia del "se fosse".
Il mestiere del contadino è legato alla terra, alle radici, alle tradizioni. La vendemmia è un pezzo della mia terra che ha preso un connotato di dubbio ed incertezza: una concezione ossimorica rispetto la terra che i miei avi hanno calcato e per cui io stesso ho gioito in passato.
I trentini sono chiusi e duri come le loro montagne... ma a poco a poco questa situazione va sgretolando il loro credo.

*Luca Vescovi è un collaboratore familiare agricolo

venerdì 15 ottobre 2010

La nuova vita della Brigata Eber

Die Ausgewanderten (i)

di Simone Morgagni

Questo breve pezzo avrebbe dovuto parlare di altro.
Avrebbe dovuto parlare di zii da appendere e nipotine che hanno fatto una brutta fine.
Avrebbe dovuto parlare d'italiani, colpevoli certo, ma da sottrarre alla giustizia per poterli gaiamente mettere al rogo. Con «fiaccole e forconi», giusto per riprendere alcune testuali parole che mi è capitato di sentire.
Avrebbe dovuto parlare di un trattamento "mediatico" di questa vicenda che si potrebbe definire con questo termine solo tra grandi difficoltà e di tutta una riflessione più vasta che da qui dovrebbe iniziare.
Avrebbe, appunto, se non ci fosse stata una sorta di urgenza a costringermi a esordire su queste pagine con tutt'altro tema.
Riprenderò probabilmente le fila del discorso interrotto tra qualche giorno, un po' perché è giusto, quando si parla di cronaca, non farlo nel tempo della cronaca, ma nel più sano tempo della riflessione, un po' perché la ragione di essere di questo spazio (e della mia presenza nello stesso) è quella di contribuire a invertire tempi e modi di alcune forme antropologiche dell'Italia di oggi.
Che questo sia positivo o negativo se ne potrà discutere. Che sia, è ormai un dato di fatto.
Parliamo dunque di altro. Parliamo di un qualcosa di altrettanto scioccante, almeno dal mio punto di vista e, credo, più generalmente da quello della logica di base, che si vuole sempre e comunque anche logica politica, e che la scuola italiana ha fatto in tempo a insegnarmi, prima che mi ritrovassi a guardarla da oltre la frontiera. Parliamo quindi di una bomba artigianale che esplode sotto un blindato italiano in mezzo al deserto afghano uccidendo quattro alpini e ferendone un quinto.
In tutta questa vicenda, che potrebbe essere approcciata da un'infinità di punti di vista differenti, vorrei concentrarmi in particolare su due frasi enunciate da due Ministri della Repubblica Italiana, entrambi appartenenti a quei personaggi cui io avrei affidato tutto tranne qualsiasi cosa, ed entrambe spiacevolmente fuori luogo o più semplicemente grottesche, conoscendo il ruolo istituzionale di chi ha potuto proferirle.
La prima, enunciata dall'attuale Ministro della Difesa, suona all'incirca nella maniera seguente: il fatto è che una bomba artigianale fa esplodere un blindato. Ragionevole conseguenza è [sic] che «Occorre verificare se sono necessarie altre misure. Questo fino a ipotizzare di dotare gli aerei di bombe nonostante questo sia ai limiti della compatibilità perché si possono infliggere perdite civili».
Raffinata arguzia intellettuale, si potrebbe pensare, fine ragionamento strategico o, forse (e più semplicemente, del resto), applicazione più che acrobatica di alcune regole logiche di base.
Perché, infatti, sentendosi annunciare "A", rispondere "7"? Detto con altre parole, perché di fronte ad un fatto come quello in questione rispondere con un'affermazione che potrebbe sembrare connessa, almeno a prima vista, ma che in realtà non affronta nessuna delle problematiche cardine messe in evidenza dall'evento stesso? E, soprattutto, come può quest'affermazione fare agenda, divenendo il vero punto di dibattito nazionale il giorno seguente all'avvenimento scatenante?
In questa vicenda, a mio modesto avviso, possiamo trovare tutti gli estremi del modello di pseudo-ragionamento politico che attanaglia l'Italia da ormai troppi anni e che, descritto in maniera molto grezza, consiste nel non affrontare, neppure a un minimo livello di razionalità, i problemi e le vicende nazionali. Si tratta semplicemente di annacquarle nell'espressione, ovviamente solo a parole, di una presunta retorica di un "immediato fare" destinata esclusivamente a entrare in fase con il sentimento popolare, ad acquetare i più bassi umori di quell'indistinta massa che è il consumatore italiano medio. Questo senza mai giungere al nocciolo della questione, che sia quello dell'avvenimento in sé o quello, ben più rilevante e complicato, delle cause prime e delle motivazioni profonde dello stesso. Senza dunque mai assumere alcuna valenza politica e senza assumere alcuna valenza pratica di risoluzione del problema (in fondo si tratta di sinonimi, perché altro la politica non è... ).

Noi italiani, infatti, inviamo gli alpini in un paese straniero in cui la guerra è realtà quotidiana dal 1979, in missione di pace. Li inviamo senza alcun obiettivo di politica estera o economica che non sia far piacere ad alleati di lunga data o voler continuare a fingere una difficile appartenenza al novero dei paesi che si possono permettere una proiezione militare oltre le proprie frontiere. Ma cosa ci facciamo in Afghanistan? Voglio dire, senza alcuna retorica, sappiamo davvero come e soprattutto perché ci ritroviamo in questo ennesimo scatolone di sabbia? Facciamo un dichiarato piacere alla coalizione militare cui apparteniamo? Aiutiamo i nostri alleati? Tentiamo una penetrazione politica o economica in Asia centrale? Vogliamo dare una mano a un paese che ne ha passate davvero troppe? Perché nessuno ritiene logico affrontare questa missione da un punto di vista geopolitico, economico o anche semplicemente logico?
Se il problema fosse solo militare o logistico, basterebbe inviare dei blindati più pesanti (ma anche le bombe, persino quelle artigianali, sanno aumentare di taglia e potenza), ma evitiamo per favore la scena pietosa in cui vengono a raccontarci in preda a viva emozione che saranno le bombe sugli aerei a fare la differenza. Come se non ci fosse già un aereo di qualche alleato, con tanto di bombe ovviamente, disposto a dare una mano in caso di bisogno. Questo prescindendo dal fatto che non saranno le bombe di un aereo ad aver ragione di un ordigno al suolo durante il passaggio di un convoglio e probabilmente neppure di chi le dispone. Ma continuiamo pure a non preoccuparci delle cause prime di quanto facciamo, continuiamo pure fingere di non vedere alcuna differenza tra realtà e il mondo fantastico in cui certi Ministri sembrano vivere e che si ostinano a commentare. Un interesse effettivamente, anche non solo psichiatrico, potrebbe davvero esserci. Come continuare a non vedere l'inadeguatezza di tutti i discorsi fatti sul tema pur di non toccare i veri tasti sensibili che potrebbero urtare la nostra sensibilità e persino riportarci con i piedi per terra, fino a vedere che esiste un mondo in cui siamo realmente costretti a vivere, e che poco ha in comune con quello che ci piace immaginare all'interno del calderone delle fantasiose dichiarazioni improbabili che ci avvolgono quotidianamente.
Ugualmente immerso in una realtà tutta sua, ma almeno più apprezzabile per via di (in)certi riferimenti storici un altro Ministro dei residui di questo governo, quello che dovrebbe occuparsi della nostra politica estera e che si lancia, con splendida e kitschissima retorica, in mirabolanti parallelismi tra gli alpini in Afghanistan e i garibaldini. Gli alpini sarebbero, infatti «I garibaldini del Duemila» che, come i loro antenati si batterono per l'unità nazionale, oggi si battono per «portare la pace nel mondo».
Anche qui, ovviamente, vuoto cosmico tra un elemento e l'altro, nessuna causalità che sia politica o anche solo strettamente relazionale tra i due fatti. Si parla per parlare, si utilizzano parole conosciute affiancandole e sperando che qualcuno possa immaginare a posteriori un ragionamento che non si è saputo fare in precedenza, ma si sa, gli altri sono sempre più intelligenti di noi e comunque, una volta fatta la dichiarazione per il telegiornale di servizio della sera si può stare tranquilli fino all'indomani.
Ecco, vorrei solo che qualcuno si alzasse in piedi a un certo momento, chiedendo al caro Ministro se questi alpini in fondo stanno proprio in Afghanistan a combattere contro i Borboni, e se per caso ci sono arrivati con le navi di Rubattino. Forse sarebbe stato più saggio immaginare un parallelo con La Marmora e la guerra di Crimea, ma a dirla tutta sarebbe stato in fondo complicato. Il Regno di Piemonte una politica estera ancora l'aveva.
Ripieghiamo allora sul fatto che l'Aspromonte potrebbe comunque avere dei tratti in comune col deserto afghano e speriamo che almeno questa volta non finisca come la precedente, perché tanti sforzi, apparentemente, non hanno prodotto i risultati che ci saremmo potuti aspettare. Auguriamocelo, almeno per il popolo afghano.

lunedì 11 ottobre 2010

Millenovantacinque - parte due: alle foci dello Yarmuk

Le sei frecce (iv)

di Niccolò Fattori

Tempo di caricamento 0,12 secondi. 704.000 risultati. È quello che succede usando Google per cercare "invasione islamica" (la umma). Finora nessuno dei siti esaminati, tra vaneggiamenti e riferimenti alle crociate, cita la battaglia dello Yarmuk, o Nicopoli.
Dovrebbero.
Informarsi per resistere.
Se non altro, ne trarrebbero degli esempi su cui riflettere, degli episodi da inserire nelle loro apologie o nei loro allarmatissimi articoli. Nello specifico, la battaglia del fiume Yarmuk fu combattuta nel 636 dall'esercito dell'imperatore romano Eraclio e dalle prime armate dell'Islam. L'esercito imperiale, spossato da una decennale campagna in Persia, fu spazzato via dai maomettani, che si impadronirono una volta per tutte di Siria, Libano e Palestina.
Settecento anni dopo, nel 1396, i centomila cavalieri cristiani radunati da Benedetto XIII furono sorpresi dagli ottomani e massacrati senza pietà alle porte di Nicopoli.
«Fu il primo episodio del secolare scontro tra Europa cristiana ed impero ottomano. Non fu un inizio felice» scrive il visconte di Norwich.
Lo Yarmuk e Nicopoli sono tappe, tappe poco conosciute della formazione di un complesso psicologico europeo, fiorito ed esploso nei secoli della rivoluzione industriale, che ha sempre più visto nel mondo musulmano, nell'oriente "l'altro", portatore di tutti quei difetti che il "nostro" progresso e la "nostra" civiltà hanno dolorosamente eliminato lungo i secoli.
Una fantasia orientalista di Giulio Rosati
Fonte: wikipedia.org
Così, man mano che l'Europa si arricchisce, il Levante diventa più povero. L'Europa cristianissima e impegnata nei reciproci roghi di calvinisti e luterani teme l'Oriente dissoluto. L'Occidente viziato da sé stesso approfitta di un oriente volitivo per improvvisare una ricerca dei propri coglioni smarriti.
I vizi siriani che facevano tremare di terrore e desiderio i proconsoli repubblicani pian piano scompaiono, le immagini art noveau degli harem ottomani sbiadiscono di fronte alle fotografie dei guerriglieri e degli imam incattiviti che alimentano a roghi di bandiere un furore anti-europeo destinato a sottomettere la nostra civiltà alla tirannia del loro membro metaforicamente eretto, nella mente di un novello Pietro l'Eremita.
Così, armi alla mano, l'Occidente reagisce.
on. Roberto Calderoli, l'inventore del "Maiale Day"
Fonte: ziubustianu.blog.katweb.
Si affida all' on. Calderoli, un Goffredo di Buglione bergamasco per sconsacrare il terreno destinato ad una moschea, facendoci trotterellare un coraggioso maiale giudaico-cristiano, con un pessimo gusto nel vestire.
Mette in guardia la cittadinanza osservante dai rantoli di un sociologo franco-algerino che vuole istituire "le brigate della fede musulmana".
Ci protegge dal pericolo islamico già profetizzato da Nostradamus: nel 1998 Roma sarà conquistata dai musulmani (meglio "ladrona" che maomettana?)!
Non è successo nulla nel 1998, e ci siamo potuti vedere in santa pace la vittoria francese ai mondiali.
Ma i mille parlamentari paranoici, ministri tragicomici e siti internet apocalittici non rappresentano che l'ultima manifestazione intellettuale (in più di un senso) di quel "complesso del crociato" che costituisce la prova al tempo stesso più latente e più tenace di quelle radici comuni europee tanto strumentalizzate dai politici.
Mettendo in campo personalità più illustri ed argomentazioni più raffinate: un nome a caso è quello di Alexis de Tocqueville, fulgida eccezione "agnostica" nell'universo liberale degli intellettuali mangiapreti del diciannovesimo secolo.
Tocqueville fu il classico cristiano educato da religiosi che "entra nel mattatoio e ne esce vegetariano", attanagliato da crisi di fede tra l'età adulta e l'adolescenza. Ebbe il buon senso di non dimenticare mai come una fede nel trascendente, qualunque fosse, potesse fornire una sorta di "terza gamba" (il
Alexis de Tocqueville, filosofo francese dell'800
Fonte: diagoal.blogspot.com
termine sembra andare di moda, oggi) alla struttura, ancora per l'epoca sperimentale, dello stato liberale. Fu un acutissimo analista delle meccaniche sociali e culturali del suo tempo, che seppe prevedere, complice la natura aristocratica, alcuni dei rischi umani insiti in un sistema democratico. Sono molto interessanti anche alcuni dei suoi studi sulla religione, specie quelli attorno all'Islam, raccolti sul campo durante diverse permanenze in Algeria.
I suoi giudizi più severi vengono fuori nella corrispondenza privata, in questo caso una lettera a Richard Milnes. Era il maggio 1844, sono gli anni del Fardello dell'Uomo Bianco «Voi [Milnes; n.d.N.F.] mi sembrate tornato dall'Oriente come Lamartine, un po' più musulmano di quanto non convenga. Non so perché ai nostri giorni molti spiriti diversi mostrano questa tendenza. [...] Nella misura in cui ho conosciuto meglio questa religione, ho meglio compreso che è soprattutto da essa che deriva la decadenza che attenta sempre più sotto i nostri occhi il mondo musulmano. Quando Maometto non aveva avuto altro che la colpa di unire intimamente un corpo d'istituzioni civili e politiche ad una credenza religiosa, in modo da imporre al primo l'immobilità,[...] ne ebbe abbastanza per destinare in un momento i suoi seguaci subito all'inferiorità ed in seguito alla rovina inevitabile. La grandezza, e la santità del Cristianesimo è di non aver tentato che di regnare nella sfera naturale delle religioni abbandonando tutto il resto ai liberi movimenti dello spirito umano».
Pur nell'innegabile acume (Tocqueville ascrive la sostanziale immobilità delle istituzioni politico-religiose musulmane alla diretta derivazione di queste ultime dal trascendente) lo storico francese mostra nell'ultima frase quanto sia radicata la convinzione di un Europa da sempre Civile, da sempre Buona, in cui dall'alba dei tempi Trono e Altare convivevano in una felicissima separazione domestica. Sembra che la religione, messasi da parte in modo completamente autonomo, abbia abbandonato la Storia al libero gioco delle istituzioni secolari.
Non è vero.
Nella sua grandezza, Tocqueville dimentica la "dottrine delle due spade" (formulata da Papa Gelasio nel 494: i poteri del Papa e dell'imperatore erano entrambi dovuti a Dio, mettendo di fatto l'imperatore sotto l'autorità ecclesiastica); un Papa, Giulio II, in prima linea durante l'assedio di Bologna; i vescovi feudatari dell'età di mezzo e i cardinali statisti dei secoli barocchi. Ci fa capire che il cristianesimo ha contribuito allo sviluppo dinamico dell'Europa, ma dimentica che questo dinamismo avrebbe avuto luogo anche grazie agli slanci ideali promossi nei secoli dai potentati di ogni ordine e grado che riunissero nelle loro mani i poteri del secolo e dello spirito. È stata l'inscindibile presenza della fede cristiana nei secoli a muovere e ad agitare il vecchio continente.
Sono stati I cristianesimi a dividere l'Europa, a porre le basi per la divisione razzista in mediterranei e germanici ancora presente nei manuali militari di fine '800, a creare le tre macroregioni "qualitative" in cui è classificata l'UE, le varie Europe occidentali, meridionali ed orientali, in cui gli stati entrano ed escono a seconda della propria ricchezza e di vaghi criteri "democratici".
Il Cristianesimo, quello antico, quando ancora ce ne era solo uno, forse due, ha inculcato nelle menti degli europei il furor crucesignatus da cui deriva in prima istanza la convinzione di essere nel Giusto, che li ha portati in cinque secoli ad avere le mani in pasta in tutto il mondo, dopo e durante gli innumerevoli conflitti interni.
Ma ora, ora che l'Europa ha finalmente trovato pace ricchezza ed unità, il "complesso del Crociato" ha lentamente perduto vigore, fino a diventare invisibile, latente. Ma c'è e sempre ci sarà un "altro" cui il nostro inconscio ascriverà i nostri peggiori vizi, qualcuno che, antitetico al nostro modo di pensare, sarà capace di scatenare paure incontrollabili: siamo tutti crociati.
Sia pure in nome del Papa, della consustanziazione o delle libertà democratiche.

domenica 10 ottobre 2010

Abbiamo perso la memoria del silenzio

Il fucile (vi)

di Gian Piero Travini

Breve intervento.
Solitamente provo a parlare di politica, ma piuttosto che soffermarmi sulla divertente nomina di Romani a ministro per (la semplificazione del)lo Sviluppo Economico, mi sostituisco all'Isegoreta e provo a ricordare due visioni che abbiamo perso.
Il silenzio.
Gli applausi alle bare con dentro corpi gonfi d'acqua, in uno stadio che sa tanto di mausoleo mediatico, servono solo a confermare che la "corruzione" di una vicenda tragica ha radici profondamente piantate nell'animo degenere di un'Italia che cresce in un'ignoranza e in un'accidia spaventose.
Prendo in prestito un pensiero di Stefano Andreoli, meglio conosciuto come Stark nel mondo dei blogger: «È come se il silenzio, in commemorazioni così poco "private", ci facesse orrore». Ci fa orrore perché è nel silenzio che ci ricordiamo che ognuno di noi è fallibile. Che ognuno di noi è giudicabile. La gara a chi applaude di più, all'addolorato, la gara a chi "partecipa" di più al prime-time è seconda solo a quella per l'indignazione e la condanna.
Abbiamo perso la memoria del silenzio.
Gli american gods nostrani, per rubare da Gaiman, hanno creato il bisogno di divenir notizia. Anche a fin di bene. Di lasciare che il riflesso di noi stessi, filtrato dal media e catalizzato da milioni di nostri simili, si costituisca parte di noi stessi. Oltre Jung. Oltre Baudrillard.
Abbiamo permesso che un concetto semiotico usato per spiegare un fenomeno, l'iperrealtà, divenisse parte di noi stessi e continuasse a fungere da modello. Abbiamo esasperato noi stessi. Non ci è andato bene d'esser somma degli "io" percepiti dagli altri. No. Abbiamo chiesto al media, al Behemoth della passività, di imporci una sua visione semplificata di quello che gli altri conosceranno di noi stessi.
E la madre è dignità incrollabile. Quando in realtà non ha avuto il tempo, ancora, di riflettere a pieno su quello che è accaduto. E il vero dramma è che ha legittimato lei stessa tutto. Ha scelto di entrare nel prime-time. E il prime time ha concesso la stessa pietà che lo zio ha concesso alla nipote. E sta abusando della madre, ora che è morta dentro, come lo zio ha abusato della nipote, morta e basta.
Questo è il mostro che dal 1981, da Vermicino, la nostra ignoranza ha contribuito a generare.
Un mostro deviante e deviato.
Un mostro che continua a generare aborti immondi e continua a servirceli creando altri mostri per sfogare i nostri istinti rabbiosi invece che concentrarci sul vero male.
Il male di vivere.
Il male del comune più povero della provincia di Taranto, secondo uno studio del Ministero dell'Interno del 2006. Un comune in crisi demografica, che fronteggia ancora la modernità con le acque nere scoperte e che da anni cerca di imporsi sul vicino comune di Manduria per l'annessione di parte del suo territorio per ottenere uno sbocco utile al turismo sullo Ionio.
E se la "bestia", l'orco, il "mostro" o come vi pare chiamarlo nasca in condizioni di tragedia, poco importa. Diamolo al boia.
Il boia mediatico non è abbastanza, per far tacere il male dell'impotenza dentro di noi.
La cura del dolore è meglio della prevenzione della presa di coscienza.
Sono passati 500 anni dalla Confraternita della Misericordia del Rione Cattedrale di Asti, da quando il più grande sentimento cattolico è stato sdoganato dai laici, ripulito dagli orpelli di falsi papismi, e integrato nei diritti doveri dell'individuo. E 500 anni sono troppi.
Abbiamo scordato cosa significhi il perdono laico.
Abbiamo scordato cosa significhi riflettere in silenzio sull'effetto, ma anche agire con vigore sulla causa.
Stiamo prendendo la via più facile.
Stiamo lasciando che chi crea mostri faccia di noi mostri più tremendi. Mostri che NON pensano per scelta.
La nostra tragedia interiore, la passività che stiamo mostrando ad un secolo di pensiero post-moderno, ci sta consumando.
Ed è solo colpa nostra se quello che rimane è uno stadio che applaude, un mostro alla gogna e un cadavere sodomizzato sotto terra.
Perché ci siamo scordati che è solo nel silenzio che lo stadio smette di esistere, che il mostro diventa il malato, ignorante, colpevole uomo Michele Misseri e che il cadavere sodomizzato ritorna la ragazza Sarah Scazzi. Vittima tre volte di chi ha abusato e abusa della sua vita.
Del suo assassino.
Del dio media.
Di noi stessi.
Questa volta non sparo nessun colpo: provate a spararlo voi, se ancora avete coscienza di ciò che siamo.

giovedì 7 ottobre 2010

La speranza occultata

L'isola (iii)

di Nicola Bardasi

Augusto Minzolini teorizzò, in varie interviste e dichiarazioni della metà degli anni Ottanta e dell'inizio dei Novanta, l'assenza del privato, ritenuto un concetto superato soprattutto se riferito a personalità pubbliche e ad eventi di interesse generale. Non sta a me, e non è neppure oggetto di questo articolo, vedere se il direttore del Tg1 sia o no rimasto fedele alla deontologia professionale che applicava e propugnava in gioventù. Il tema, senza nulla togliere alla questione, non è nemmeno tanto interessante.
Lo è di più, a mio giudizio, osservare quanto accaduto in questi giorni attorno alla scomparsa, ed oggi sappiamo all'omicidio, di una quindicenne.
In principio fu la scomparsa, la ricerca di una doppia vita nei meandri pericolosissimi di Facebook (come se l'uso del social network di per sé sia la prova di una insoddisfazione profonda, di una propensione alla mitomania e alla fuga). La tesi della pericolosità sociale di Internet fu sostenuta con vigore senza rendersi conto della difficoltà intrinseca legata al sostenere queste posizioni dato il numero degli utenti della rete e del sito) Uno dei molti casi in cui si sono cavalcante tigri di carta e lanciate crociate con un vigore degno di miglior causa. Si potrebbe anche chiuderla qui.
Forse bisognerebbe.
Federica Sciarelli, conduttrice di
"Chi l'ha visto?"
Fonte: listalesbica.it
Occorre però anche riflettere su un altro tema: quello che è stato definito "la morte in diretta". La scoperta del privato è stata tardiva, il rispetto nullo, l'attenzione psicologica dovuta ai personaggi coinvolti ha rasentato l'inesistente. Quando? Solo ieri quando "Chi l'ha visto" ha usato la vicenda per alzare lo share? O anche quando la vicenda è servita per raccontare una inesistente gioventù bruciata, priva di valori, di remore, di principi, attaccata solo a sogni di adolescenti e degradate e degradanti ragnatele virtuali? Dietro, forse, non c'è solo la volontà, legittima da parte dell'informazione, di "stare sul pezzo", ma anche l'irrefrenabile impulso, segno dei tempi, a costruire una mitologia della suburra, della lussuria, del disfacimento morale che permea ogni cosa, ogni persona, ogni evento. Senza eccezioni.
È un vecchio gioco quello che, partendo da una supposizione di eguaglianza fra la "classe dirigente" (in senso lato) e i cittadini (in senso altrettanto lato) attribuisce a questi, a tutti questi, i comportamenti di quelli. Come tutti i giochi ha una finalità: delegittimare la speranza del meglio, cioè l'attesa ottimista del futuro, vale a dire annichilire la voglia di cambiamento, renderla inoffensiva e quindi influenzabile.
La passività sociale è una componente del caso Scazzi?
Una ragazza dipinta come maniaca e ninfomane (udite udite possedeva persino un account su Facebook!) desiderosa di abbandonare il paesello natio (quale ardire!) e il nido familiare (le era toccato uno zio così attento... Cosa poteva volere in più dalla vita?): io mi permetto di considerarlo un buon indicatore in tal senso.
Non si è detto altro.
Non si poteva fare più silenzio, usare anche con lei, con l'ambiente circostante e con i fatti che emergevano, la misericordia che tanto piace all'Onorevole (?) Lupi ed il beneficio del dubbio?
Ciò che ne esce, comunque, è un sistema mediatico assurdo, filiazione diretta di una società che non sa guardare con ottimismo agli altri perché cattiva. E la cattiveria è sempre derivante, soprattutto quando è collettiva, dalla mancanza di speranza e dal "così fan tutti" che ci fa credere che tutti sotto il sole facciamo schifo uguale. Questo sentimento e l'atteggiamento connesso mi preoccupa di più delle beghe immobiliari e della Libertà senza Futuro o del Futuro senza Libertà.
Forse Minzolini aveva ragione.
Il privato probabilmente non esiste.
Ma solo perché lo concepisco non vuol dire che sia d'accordo. Potrei esserlo se si dicesse che non importa se si guardi il pubblico o il privato, importa l'occhio e lo sguardo.
Soprattutto quando si volge verso coloro che oggettivamente sono più deboli.

lunedì 4 ottobre 2010

Quel liberalismo "solo a parole"

La parola ai testimoni (i)
di Maurizio Alessandro Cattaneo*

Il Presidente del Consiglio on. Silvio Berlusconi
Fonte: insiemepercamarda.com
Ieri Berlusconi ha tenuto un comizio a Milano, come non ne teneva da un paio d'anni... bello, rilassato e luminoso in viso, le spalle larghe e la vita stretta (sembrava addirittura magro), ma soprattutto con una ritrovata verve, con quel carisma che ha ammaliato nel lontano '94 l'Italia, e non a caso a fine discorso sono state riportate le parole della discesa in campo di Silvio, quasi per riportarci indietro di più di un decennio. Man mano che l'ascoltavo rievocare le frasi da lui dette anni prima dicevo tra me e me che capivo chi aveva creduto in lui, che io stesso lo avrei votato, anche se all'epoca avevo solo tre anni. Si parla di liberalismo, di libertà d'impresa, di uno Stato leggero che deve chiedersi cosa deve fare lui per il cittadino e non ciò che il cittadino può fare per lui, uno Stato che debba garantire l'ordine e la giustizia e non interferire nell'economia; si parla di scissione chiara e netta tre pubblico e privato, di un paese meritocratico che riconosce le capacità del singolo e lo aiuta per forgiarsi e forgiare la sua vita senza trasformare questo aiuto in assistenzialismo, uno Stato che insomma metta al centro l'individuo. Ma l'idillio termina ben presto, non solo perchè rimangono parole vuote, ma soprattutto poiché nel medesimo discorso emerge quella malattia tutta italiana dello scorporo del liberalismo economico, il cosiddetto liberismo, da un liberalismo etico, di diritto, un liberalismo sociale. Allora si iniziano a sentire parole come la sacralità della vita, la famiglia naturale ed altri temi simili. Ebbene sconvolgiamo la mente di Berlusconi e del suo seguito: non esiste scissione tra liberalismo e liberismo (se non nella mente di Benedetto Croce, ma il paragone sconvolge). Il liberalismo è una dottrina politica complessiva, nella quale la libertà economica è la condizione necessaria della libertà politica, per dirla con Einaudi, ma oltre ad essa l'individuo si realizza attraverso i propri diritti civili e la libertà sul suo corpo, ed è per questo che non si può essere liberali se non si concede ad un essere umano il diritto sul proprio corpo e la scelta di poter evitare inutili sofferenze ed umiliazioni, sia fisiche che spirituali, facendo dipendere la libertà del singolo da un nuovo "Stato etico"; non si è Liberali se ancora si mette in dubbio la possibilità di una donna di abortire e si fa di tutto per ostacolare questa difficile scelta: dai medici obiettori al blocco della pillola abortiva; non si è Liberali se si vieta alle coppie sterili di accedere all'uso della procreazione medicalmente assistita, a meno che, ipocritamente, con essa la donna non sia disposta ad affrontare inutile dolore e mortificazione; non si è Liberali se si nega la realizzazione dell'individuo come membro di una coppia, anzi di un nucleo famigliare, in base al suo orientamento sessuale. Ma la debolezza delle parole del Presidente del Consiglio non sta solo nella loro contraddizione interna, ma è rappresentata anche da quei tre governi, che in ambito di libertà economica hanno fatto ben poco, e purtroppo mi duole dirlo, anche con il voto del rappresentanti di Futuro e Libertà, che però almeno oggi si accorgono dell'errore. Il fulcro sul quale verte il Liberalismo economico è che lo stato non deve intervenire come protagonista nell'economia, ma deve solo coadiuvarne il funzionamento, attraverso la costruzione e il mantenimento di una rete infrastrutturale, attraverso il diritto delle persone all'istruzione, alla salute e alla sicurezza, che passa attraverso la garanzia che magistratura e forze dell'ordine assicurano all'individuo e alle imprese; tutte cose affatto seguite da Berlusconi. Analizzando le iniziative prese dai governi guidati dal Cavaliere notiamo il sottofinanziamento delle opere infrastrutturali grandi e piccole, soprattutto per quanto riguarda il meridione d'Italia; notiamo pure il drastico taglio ai fondi per l'istruzione, l'Università e la ricerca e una demonizzazione continua della magistratura, accompagnata da pesanti mietiture dei fondi disponibili per essa e per le forze dell'ordine, bloccando così alcune rivoluzioni annunciate dallo stesso premier come l'informatizzazione del processo civile, che la dove è arrivato, come ad esempio in alcuni dipartimenti del tribunale di Milano, è merito dei privati. Al contempo abbiamo assistito al moltiplicarsi delle spese di mantenimento dello Stato e della politica, al proliferare delle provincie e all'aumento della pressione fiscale, sia attraverso imposte dirette che indirette. Se al cittadino lasci invariate le aliquote fiscali ma al contempo gli aumenti il pedaggio autostradale, il risultato che otterrai è comunque quello di un aumento del prelievo,il quale però va maggiormente a danno della classi sociali più deboli, quelle che nel famoso discorso della sua discesa in campo egli dichiarava di voler aiutare e proteggere. Infine voglio ricordare che anche laddove si è cercato di dare spazio al privato ci siamo ritrovati situazioni paradossali come la totale scomparsa delle scuole private a vantaggio di quell'ibrido mostruoso che sono le scuole paritarie, che spesso non sono sinonimo di maggiore qualità ma solo di facili promozioni; il tutto mentre la scuola pubblica agonizzava. E ancora ci siamo ritrovati di fronte alla riconversione di colossi economici statali in società compartecipate a maggioranza pubblica, alle finte liberalizzazioni di alcuni settori del mercato attraverso la svendita di monopoli statali a favore di monopoli privati, ed ovviamente non voglio stare a tediarvi con il discorso sulla liquidazione del patrimonio statale con assurde vicende come la cartolarizzazione, che si tradussero solamente in maggiori costi per lo stato. Insomma dopo quindici anni ci accorgiamo, purtroppo tardivamente, che Silvio Berlusconi non è la Thatcher italiana, nemmeno nella versione in salsa rosa, ma solamente il figlio deforme del socialismo, e forse non dovremo sorprendercene più di tanto dato che il Presidente del Consiglio era solito partecipare alle convention del PSI. Ma se l'obbiettivo più volte dichiarato da Berlusconi era quello di fare in Italia la rivoluzione liberale, mi trovo a dire che egli non solo ha tradito la volontà popolare che lo ha eletto, ma lo stesso motivo della sua discesa in campo, e allora dico che preso atto del suo fallimento sarebbe meglio che egli, al posto di tentare di affondare chi ancora si mantiene fedele a quel proposito, passasse il testimone.

*Maurizio Alessandro Cattaneo è responsabile della sezione giovani del circolo di Milano di Generazione Italia

venerdì 1 ottobre 2010

Millenovantacinque - parte uno: la sindrome di Dorileo

Le sei frecce (iii)

di Niccolò Fattori

Al tavolo di un ristorantino turco, io e Ceyda stiamo mangiando del kebap di pollo, condito con pomodori, insalata ed un bicchiere di Ayran.
Ceyda è una ragazza che ho conosciuto un paio di sere prima in un pub. Ha il fisico ben tornito di una pallavolista amatoriale, lo sguardo sveglio e dei bellissimi boccoli neri che le cadono sulle spalle, incorniciando un viso dai lineamenti forti ed i colori scuri. Tra un morso e l’altro, facendo ben attenzione a non parlare a bocca piena, conversiamo discretamente in italiano, lingua di cui ha una buona padronanza.
Inevitabilmente, si finisce a parlare di politica. Nonostante siano fascisti, dice, e lei si professi di sinistra, vota CHP (Partito Repubblicano del Popolo, e maggiore forza dell’opposizione) e odia il primo ministro Erdogan. La cosa non mi stupisce, conoscendone l’estrazione altomedioborghese.
Quello che davvero non mi aspetto, è il suo commento sull’occupazione dell'Iraq.
"Studi Relazioni Internazionali: dovresti sapere perché Bush ha invaso l'Iraq... ". Non faccio in tempo a rispondere che è lei a continuare: "Per creare uno stato curdo e distruggere la Turchia, ovviamente".
"Scusa?" la mia reazione è immaediata.
"Sai, non ho nulla contro i curdi, sia chiaro, mio padre era di Diyarbakir. Però, se mi domandi cosa penso del conflitto nel sud-est, beh, è chiaramente una manovra per dividere il paese. Anche in Iraq, gli americani vogliono staccare il nord curdo e aiutare il PKK per indebolirci. Non sarebbe la prima volta. Gli occidentali ci hanno divisi, ci hanno invasi, ma noi abbiamo combattuto, e li abbiamo cacciati via".
Non so cosa ribattere. Vista la natura più o meno galante dell'incontro, schivo l'argomento e le chiedo qualcosa su suo padre, promettendomi di approfondire la tematica.
Pochi giorni più tardi, un’altra ragazza, Zeynep, mentre mi sta aiutando a ripassare certi costrutti grammaticali, mi chiede se sono cristiano, e cosa mi ricordo della visita del Papa. Lei non è come Ceyda, la sua è una famiglia anatolica, di Konya, ed il velo che porta sui capelli la dice lunga sul suo orientamento religioso. La risposta è una scrollata di spalle, e un vago cenno: "La visita del Papa in Turchia? Dovrebbe essere stata quando hanno ammazzato quel prete a Trabzon, se non sbaglio".
Non sbaglio.
Il povero prete, don Andrea Santoro, che di colpevolmente comunista aveva solo il nome, fu assassinato nel febbraio 2006 da un giovane Bozkurt, uno dei Lupi Grigi, i famigerati ultra-ultra-ultranazionalisti turchi che ogni tanto fanno capolino nelle pagine della cronaca.
"Beh, mio padre dice che sono stati i cristiani a complottare l’omicidio, per far ricadere la colpa su un turco - continua Zeynep - personalmente, non ci credo. Però per molto tempo, i giornali hanno continuato a pubblicare teorie di cospirazioni antimusulmane ed antiturche".
"Come quando l'Inter ha giocato a Istanbul indossando la maglia con la croce rossa?" le faccio eco, ricordando della partita con i Sarı Kanaryalar (Canarini Gialli) del Fenerbahçe nel novembre del 2007. "Più o meno. Vedi, checché ne dicano i repubblicani, a molti turchi l'occidente non va giù. Il cristianesimo è, secondo alcuni, solo una delle armi che l'Europa sta utilizzando per piegare la Turchia, non essendoci riuscita con la guerra. Fuori dai mercatini turistici di Istanbul, lo straniero, in astratto, quando non chiede ospitalità, è il cavaliere crociato venuto per conquistare il paese".
"Deh, sarà per questo che qui in Turchia piaccio alle donne!". Rido di gusto. Lei un po' meno.
L'atteggiamento cortesemente paranoico di Zeynep e di Ceyda nei confronti del resto del mondo è radicato nella mentalità turca quasi quanto il senso di ospitalità: sono due facce della stessa moneta, l'uno derivante dal profondo orgoglio e senso di rivalsa che ancora infiamma i cuori dai giorni della guerra di indipendenza, l'altro nato dalla persistenza di tradizioni e stili di vita basati sulla centralità della c.d. "famiglia tradizionale" e dallo storico ruolo dell'Anatolia come ponte tra Asia ed Europa.
Ancora più incuriosito e un po' turbato, mi dirigo verso casa con l'intento dichiarato di saperne di più a proposito delle calunnie post-mortem rivolte dai giornali alla buon'anima di padre Santoro, ridacchiando sulla reputazione di crociati che ci siamo guadagnati dal 1095. Così, frugando tra i bagagli, sotto l'elmo, la croce di pezza rossa da cucire sul mantello, le cronache di Guglielmo di Tiro e la spada che giurai di piantar nel cuore del feroce Saladino, trovo un bell'articolo del 2006 di Michelangelo Guida, docente al dipartimento di Pubblica Amministrazione dell'università di Fatih, ad Istanbul: "The Sèvres Syndrome and “Komplo” Theories in the Islamist and Secular Press".
La tesi è semplice: i mezzi di comunicazione in Turchia, specie quelli più politicamente orientati, agiscono da cassa di risonanza della paranoia antioccidentale della gente comune, amplificandola fino a farle raggiungere livelli da commedia plautina.
"Bella scoperta - mormorerà un lettore disincantato - veniamo da un paese dove si pubblicano La Padania e Il Foglio, dove un sottosegretario strappa il velo ad una donna musulmana il giorno del Bayram, che è un po' come pisciare sul presepe la notte di Natale".
Ineccepibile.
Ma la cosa va oltre. Va oltre il semplice spacciar i rantoli di un tunisino ubriaco che giura di uccidere tutti gli italiani, che lo odiano, per un documento programmatico di Al Quaeda: dietro la tragedia di padre Santoro, i radicalissimi imam del giornale Gerçek Hayat, sia chiaro, una lampante eccezione nel mondo editoriale anatolico, vedono la punta di un iceberg di complotti e cospirazioni antiturche. Un breve estratto da un articolo pubblicato nella testata, "Rahibe Sıkılan Kurşu" (La pallottola che ha ucciso il prete) e ripresa da Michelangelo Guida «Si possono trovare un sacco di ragioni sull'omicidio di don Santoro, ma il solo aspetto degno di nota è la sua collocazione temporale appena dopo la pubblicazione delle vignette denigratorie nei confronti del Profeta. Tutto quello che sta succedendo nel mondo ci mostra che in un paese dove nessuno ha mai pensato di mettere in agenda il problema dei missionari, il fatto che sia stato scelto un sacerdote cattolico piuttosto che uno protestante potrebbe non dare l'impressione che si sia trattato di un piano ben architettato. Comunque, le caratteristiche dell’obiettivo designato e la tempistica dell'omicidio, continueranno ad essere discusse a lungo».
Trabzon è una città di trecentomila abitanti. Un alto costo della vita, un'altissima disoccupazione, la presenza di innumerevoli vittime del terrorismo curdo e tanti altri fattori possono risultare un ambiente fertile per ideologie estreme, come ha fatto notare il giornale Aksiyon. Ma no, il povero sacerdote di Trebisonda è stato vittima non tanto delle pallottole di un estremista sedicenne quanto del complotto Cristiano per accusare la Turchia di terrorismo.
Stessa storia per la visita del Papa.
Il 14 settembre 2006, Benedetto XVI ebbe di nuovo modo di mostrare al mondo le proprie innate capacità di comunicatore adoperando la voce dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo per dire una cosa giusta (centrale nel discorso di Ratzinger è l’armonia tra fede e ragione) usando le parole peggiori, ovvero «Mostrami ciò che Maometto ha portato di nuovo nel mondo, e vi troverai solo cose cattive e disumane», con una tempistica da commedia trash anni '80 (erano i giorni delle vignette satiriche contro il Profeta).
Ricapitoliamo: un Papa cattolico usa le parole di un Imperatore bizantino per dare addosso al Profeta musulmano nei giorni confusi dell’estate 2006.
Geniale.
Necmettin Erbakan, teorico dell'Islam politico
Fonte: e-turchia.com
Seth MacFarlane non avrebbe saputo fare di meglio.
Nonostante l'inevitabile valanga di commenti, a Benedetto XVI non mancò il fegato per fare una visita pastorale ad Istanbul, nel novembre dello stesso anno.
Questa volta è Necmettin Erbakan, leone dell’Islam politico, che ci fornisce un pezzo da manuale di retorica della paranoia in "Medeniyeti Islâm'a Borçlular", sempre riportato da Guida «È chiaro come il sole che il Papa non stia venendo in Turchia con in cuore le sorti del popolo turco. Al contrario, infischiandosene del popolo turco, il suo vero obiettivo è visitare il Patriarca, l'autorità religiosa dei cristiani ortodossi, per rafforzare l'ecumenismo e riportare Bisanzio a nuova vita. Sta arrivando per dare una mano ai razzisti imperialisti, che complottano contro il mondo islamico [...] È solo una parte del piano che hanno in mente per dividere il nostro paese e la nostra comunità, per farne un boccone, mangiarla, annientarla».
Insomma, un cocktail di frasi ad effetto, teorie della cospirazione, inni alla cultura immortale del popolo, minacce alla comunità ed identificazione del male assoluto con lo straniero, con un sistema religioso differente.
Mancano solo le camicie verdi.

mercoledì 29 settembre 2010

Il realismo intellettuale di Campi

Il fucile (v)

di Gian Piero Travini

Ho conosciuto Alessandro Campi quando ho iniziato a lavorare alla mia tesi. L'ho inserito volentieri in bibliografia dopo che ho letto alcune sue elucubrazioni abbastanza "datate" su Schmitt e Gianfranco Miglio, che l'amico Nicola Bardasi ben conosce, per poi dedicarmi a "Il ritorno (necessario) della politica", un signor libro di real politik in chiave "interna" piuttosto fondamentale nell'analisi politica del momento critico che ben prima del 2002 in cui il libro è stato scritto si affacciava. E continua ad affacciarsi.
Non nego che parte di questo blog nasca sull'onda del tema di un ritorno alla "centralità della politica" che Campi continua a predicare dalle colonne digitali di FareFuturo. Con FareFuturo, come avrete facilmente intuito leggendo molti dei nostri articoli, abbiamo poco a che spartire, considerando parte dei collaboratori e delle "menti espresse" dalla fondazione come nocciolo di quel liberalismo-chic che cerchiamo di controbattere con la logica costruttiva di un liberalismo più "terribile", nell'accezione parmenidea del termine. Più critici, dunque, soprattutto con chi dietro la critica si nasconde ma che in realtà non fa il passo avanti che noi auspichiamo.
Poche eccezioni, in queste realtà. Le principali sono la professoressa Sofia Ventura e, appunto, Alessandro Campi.
Alessandro Campi, direttore scientifico di FareFuturo e
docente di Storia del pensiero politico a Perugia
Fonte: mpalumsa2010.blogspot.com
La ragione è semplice. Campi non è un politologo attivista. Non è un politico. Non è dunque un politicante. È, prima di tutto, uno storico e un analista. Così come lo era 'Ted' Carr quando analizzava i fallimenti del liberalismo idealista di Woodrow Wilson (e, come Carr, condivide la dicotomia di liberale E realista). Campi inizia a cogliere i primi segni di cedimento del liberalismo "cerchiobottista" di chi lo circonda. Perché è uno storico. Perché è dotato di spirito critico. Ed è capace di farlo funzionare.
E non posso fare a meno di esaltarmi leggendolo per caso su Il Foglio.
Non fa nomi.
Non indica i "colpevoli".
Si limita a rilevare una condotta errata di Gianfranco Fini e a rilevare comportamenti che l'ala "populista" di Futuro e Libertà per l'Italia sta mantenendo. Con un perfetto esercizio logico Campi esalta le problematiche della terza gamba del governo Berlusconi IV, comportamenti che già altri avevano rilevato, purtroppo con modi, intenti e parole meno limpide di quelle del direttore scientifico di Futuro e Libertà.
«[A Fini; n.d.G.P.T.] dovrebbe riuscire una manovra che restituisca senso politico a questa aspra contesa che si è trasformata in una questione personale dalle sfumature poco limpide. Dal punto di vista dell’ex leader di AN il risultato lo si può ottenere ritornando a declinare i temi culturali del cosiddetto "finismo", cioè la molto evocata "conversione di Fini", attraverso una nuova formazione politica che, pur all'interno del centrodestra, si ponga in leale concorrenza (non antitesi) con il berlusconismo e la sua interpretazione dei rapporti sociali e della politica». La via che traccia è semplice: dimissioni di Fini dalla Presidenza della Camera per avere più libertà di manovra, di espressione e di tempo, evitando attacchi puerili ma mediaticamente efficaci. Tra le righe emerge una velata critica al discorso di Mirabello, critica che già abbiamo avanzato su questo blog: la Presidenza della Camera è il principale blocco che personalmente, non mi permette di considerare Fini un interlocutore politico valido.
«Creare e guidare direttamente un partito significa scegliere con accuratezza gli uomini e la classe dirigente, significa parlare in chiave politica, e non solo istituzionale, con il tuo potenziale elettorato. Fare politica da presidente della Camera, di fatto, è un freno». Campi è chiaro: distaccarsi definitivamente dalle logiche grette atte a guadagnar tempo del gruppo parlamentare per iniziare a lavorare su quel 7% che i sondaggi accreditano al plausibile soggetto politico finiano.
Poi, Campi entra nel merito retorico di una piccolezza su cui avevo riflettuto ascoltando il discorso di Fini sulla vicenda monegasca: «Guai se Fini si dimettesse perché spinto dalla risibile e forsennata campagna sulla casa di Montecarlo: è uno scenario che non esiste e che è stato persino un errore adombrare da parte sua nel video messaggio di sabato scorso. Non c'è nessuna proporzione, nessun legame comprensibile, tra la banale faccenda della casa monegasca e l'enormità delle sue eventuali dimissioni. Se mai Fini decidesse di fare un passo così importante, dev'essere ispirato da ben altro: dalla sua storica battaglia per un centrodestra migliore. Un sacrificio dettato da ragioni politiche, dalla decisione responsabile e coraggiosa di mettersi personalmente a capo di una formazione politica capace di recuperare e rilanciare il senso di un percorso culturale che viene da lontano».
Il fattore tempo gioca a sfavore di Fini. Come gioca a sfavore del centrosinistra. Interrompere prematuramente la parabola del berlusconismo avrebbe l'effetto opposto di ridarle slancio, grazie al clamore suscitato da un eventuale "tradimento" di Fini e all'ondata di consenso della Lega, mandando a carte e quarantotto il gioco di Gianfranco.
Affascinato dall'analisi di Campi, che personalmente condivido totalmente, azzardo un'ulteriore quanto naturale evoluzione: dimissioni di Fini da presidente della Camera, creazione e consolidamento del nuovo partito, possibilmente astraendosi da certi residuati bellici dell'inutilismo berlusconiano (che non ha nulla a che fare con l'immobilismo berlusconiano: nel PDL quelli utili se li sono tenuti TUTTI), attesa dell'inevitabile crisi di governo che Bossi potrebbe aprire a fine anno rendendosi conto dell'impossibilità numerica anche solo per impostare definitivamente il federalismo e poi ci si giocano tutte le possibilità alle elezioni, sperando che qualcuno introduca nel programma elettorale come prima riforma quella elettorale in senso uninominale, ricordandosi che nelle democrazie con i coglioni le riforme elettorali si fanno immediatamente DOPO le elezioni, e non poco prima per sparigliare in un senso o nell'altro la contesa.
Ma cosa rimane di ciò che Campi ha segnalato?
Rimane che esistono persone all'interno di Futuro e Libertà che potrebbero impedire a Fini di commettere gli "errori" giusti. Di fare vera politica.
Uno che mi viene in mente? Il solito.
Alle 18.02 di ieri pomeriggio, dopo le prime dichiarazioni al termine del vertice di maggioranza, l'onorevole Italo Bocchino dichiara che il voto sulla fiducia «È un modo che salutiamo favorevolmente perché fa appello, e consente di esprimersi, a tutta la maggioranza. La fiducia è la presa di distanza dalla politica dell'autosufficienza praticata fin qui, una presa di distanza che è esattamente quello che noi volevamo. Quindi direi che in generale è un passo avanti sulla strada dell'intesa. Porre la fiducia rappresenta una tesi, quella di appellarsi a tutta la maggioranza, che valutiamo positivamente». Alle 22.27, probabilmente sotto l'effetto del Vinavil e Ranxerox come pochi, il buon Bocchino si scatena a Ballarò: «Berlusconi ha tirato fuori l’operazione fiducia perché gli consente di tirare a campare e di portare avanti la legislatura ma dimostrerà che c'é la "terza gamba" e che è determinante per la tenuta del governo».
Campi e l'onestà intellettuale sul Foglio.
Bocchino a raccontarci delle sessantaquattro società off-shore di B. quando domani gli darà la fiducia, col pretesto retorico che la «fiducia al governo è ben diversa dalla fiducia a Berlusconi» in diretta televisiva.
La scelta è dannatamente facile.
BANG!!!

sabato 25 settembre 2010

Piccoli populismi

Il fucile (iv)

di Gian Piero Travini

Grazie a dio è tornato Annozero: mi mancavano le boiate di Castelli.
Volutamente sotto alle righe, l'ex-ministro della Giustizia: evidentemente dal partito gli hanno fatto notare che Borghezio, a La7 qualche sera prima, aveva esaurito il bonus cazzate. No, seriamente... si capisce che è cosciente di essere rappresentante dell'unico partito costituito con «la bussola ben salda», per citare un noto filosofo contemporaneo che si presenta a conferenze stampa con le maniche della camicia arrotolate in autunno.
Quindi, trovando un Castelli insolitamente lucido, mi sono concentrato su Fellatio.
A parte quando si è messo a litigare con la sua ex-compagna di partito Chiara Colosimo, facendosi sfottere persino da Castelli, l'ho trovato molto a suo agio nell'evitare accuratamente di intervenire sul problema sollevato dagli operai dei cantieri navali di Castellammare di Stabia e nell'affrontare, innamoratizzimo, l'annoso problema della casa di Fini e del "dossieraggio" che i parlamentari di Futuro e Libertà attribuiscono a Berlusconi. Fino a che Santoro non ci ha dilettato con un pezzo di ottimo giornalismo, sottoponendo all'onorevole Bocchino un piccolo saggio di onestà intellettuale che, ovviamente, il finiano non è riuscito a cogliere.
Santoro domanda al parlamentare per quale motivo il suo gruppo, a seguito delle accuse, non tolga la fiducia a Berlusconi. La risposta è immediata, scontata, provata e riprovata più e più volte: «Non confondiamo le vicende di cui abbiamo parlato oggi con la fiducia al governo, perché noi siamo vincolati con gli elettori, sul programma di governo, non con Silvio Berlusconi o su quello che lui fa con i suoi giornali».
...
Fermi tutti.
Italo Bocchino, parlamentare di Futuro e Libertà
Fonte: vip.it
Qualcuno spieghi a Bocchino che non siamo dotati di un sistema elettorale basato sul principio uninominale.
Qualcuno spieghi a Bocchino che non c'è l'elezione nominale diretta dei rappresentanti degli elettori al Parlamento.
Qualcuno, per carità di dio, spieghi a Italo Bocchino che il suo mandato non deriva dagli elettori.
Il gruppo parlamentare di Futuro e Libertà non fa capo agli elettori. Non deve nulla a loro. Qualsiasi parlamentare eletto all'interno del partito PDL, come lo furono i "finiani", ha un vincolo con il partito che lo ha inserito nelle liste elettorali. Ovviamente chi vota sono gli elettori, ma non sono gli elettori a decidere le liste elettorali, l'ordine di lista e quindi la conseguente ripartizione dei voti sui vari candidati. Sono i partiti.
Il vincolo di Bocchino, come di tutti i parlamentari eletti nelle liste del PDL, va al PDL. Non agli elettori.
PDL. Non elettori.
Se avesse dichiarato: "Noi siamo vincolati al PDL, quindi se non ci vanno bene gli atteggiamenti di Berlusconi abbiamo tutto il diritto di contestarlo, ma comunque è grazie a lui se scaldiamo le sedie in Parlamento quindi il sostegno gli è dovuto" sarebbe stato probabilmente impopolare ma intellettualmente ineccepibile.
Invece si è gettato nel richiamo ai doveri verso il popolo, strumentalizzandolo.
Si chiama populismo. È quello di cui Futuro e Libertà accusa Berlusconi dal primo giorno di vita.
Ma è anche vero che chi va con Berlusconi impara il berlusconismo.
E Bocchino è un ottimo allievo.
BANG!!!