mercoledì 29 settembre 2010

Il realismo intellettuale di Campi

Il fucile (v)

di Gian Piero Travini

Ho conosciuto Alessandro Campi quando ho iniziato a lavorare alla mia tesi. L'ho inserito volentieri in bibliografia dopo che ho letto alcune sue elucubrazioni abbastanza "datate" su Schmitt e Gianfranco Miglio, che l'amico Nicola Bardasi ben conosce, per poi dedicarmi a "Il ritorno (necessario) della politica", un signor libro di real politik in chiave "interna" piuttosto fondamentale nell'analisi politica del momento critico che ben prima del 2002 in cui il libro è stato scritto si affacciava. E continua ad affacciarsi.
Non nego che parte di questo blog nasca sull'onda del tema di un ritorno alla "centralità della politica" che Campi continua a predicare dalle colonne digitali di FareFuturo. Con FareFuturo, come avrete facilmente intuito leggendo molti dei nostri articoli, abbiamo poco a che spartire, considerando parte dei collaboratori e delle "menti espresse" dalla fondazione come nocciolo di quel liberalismo-chic che cerchiamo di controbattere con la logica costruttiva di un liberalismo più "terribile", nell'accezione parmenidea del termine. Più critici, dunque, soprattutto con chi dietro la critica si nasconde ma che in realtà non fa il passo avanti che noi auspichiamo.
Poche eccezioni, in queste realtà. Le principali sono la professoressa Sofia Ventura e, appunto, Alessandro Campi.
Alessandro Campi, direttore scientifico di FareFuturo e
docente di Storia del pensiero politico a Perugia
Fonte: mpalumsa2010.blogspot.com
La ragione è semplice. Campi non è un politologo attivista. Non è un politico. Non è dunque un politicante. È, prima di tutto, uno storico e un analista. Così come lo era 'Ted' Carr quando analizzava i fallimenti del liberalismo idealista di Woodrow Wilson (e, come Carr, condivide la dicotomia di liberale E realista). Campi inizia a cogliere i primi segni di cedimento del liberalismo "cerchiobottista" di chi lo circonda. Perché è uno storico. Perché è dotato di spirito critico. Ed è capace di farlo funzionare.
E non posso fare a meno di esaltarmi leggendolo per caso su Il Foglio.
Non fa nomi.
Non indica i "colpevoli".
Si limita a rilevare una condotta errata di Gianfranco Fini e a rilevare comportamenti che l'ala "populista" di Futuro e Libertà per l'Italia sta mantenendo. Con un perfetto esercizio logico Campi esalta le problematiche della terza gamba del governo Berlusconi IV, comportamenti che già altri avevano rilevato, purtroppo con modi, intenti e parole meno limpide di quelle del direttore scientifico di Futuro e Libertà.
«[A Fini; n.d.G.P.T.] dovrebbe riuscire una manovra che restituisca senso politico a questa aspra contesa che si è trasformata in una questione personale dalle sfumature poco limpide. Dal punto di vista dell’ex leader di AN il risultato lo si può ottenere ritornando a declinare i temi culturali del cosiddetto "finismo", cioè la molto evocata "conversione di Fini", attraverso una nuova formazione politica che, pur all'interno del centrodestra, si ponga in leale concorrenza (non antitesi) con il berlusconismo e la sua interpretazione dei rapporti sociali e della politica». La via che traccia è semplice: dimissioni di Fini dalla Presidenza della Camera per avere più libertà di manovra, di espressione e di tempo, evitando attacchi puerili ma mediaticamente efficaci. Tra le righe emerge una velata critica al discorso di Mirabello, critica che già abbiamo avanzato su questo blog: la Presidenza della Camera è il principale blocco che personalmente, non mi permette di considerare Fini un interlocutore politico valido.
«Creare e guidare direttamente un partito significa scegliere con accuratezza gli uomini e la classe dirigente, significa parlare in chiave politica, e non solo istituzionale, con il tuo potenziale elettorato. Fare politica da presidente della Camera, di fatto, è un freno». Campi è chiaro: distaccarsi definitivamente dalle logiche grette atte a guadagnar tempo del gruppo parlamentare per iniziare a lavorare su quel 7% che i sondaggi accreditano al plausibile soggetto politico finiano.
Poi, Campi entra nel merito retorico di una piccolezza su cui avevo riflettuto ascoltando il discorso di Fini sulla vicenda monegasca: «Guai se Fini si dimettesse perché spinto dalla risibile e forsennata campagna sulla casa di Montecarlo: è uno scenario che non esiste e che è stato persino un errore adombrare da parte sua nel video messaggio di sabato scorso. Non c'è nessuna proporzione, nessun legame comprensibile, tra la banale faccenda della casa monegasca e l'enormità delle sue eventuali dimissioni. Se mai Fini decidesse di fare un passo così importante, dev'essere ispirato da ben altro: dalla sua storica battaglia per un centrodestra migliore. Un sacrificio dettato da ragioni politiche, dalla decisione responsabile e coraggiosa di mettersi personalmente a capo di una formazione politica capace di recuperare e rilanciare il senso di un percorso culturale che viene da lontano».
Il fattore tempo gioca a sfavore di Fini. Come gioca a sfavore del centrosinistra. Interrompere prematuramente la parabola del berlusconismo avrebbe l'effetto opposto di ridarle slancio, grazie al clamore suscitato da un eventuale "tradimento" di Fini e all'ondata di consenso della Lega, mandando a carte e quarantotto il gioco di Gianfranco.
Affascinato dall'analisi di Campi, che personalmente condivido totalmente, azzardo un'ulteriore quanto naturale evoluzione: dimissioni di Fini da presidente della Camera, creazione e consolidamento del nuovo partito, possibilmente astraendosi da certi residuati bellici dell'inutilismo berlusconiano (che non ha nulla a che fare con l'immobilismo berlusconiano: nel PDL quelli utili se li sono tenuti TUTTI), attesa dell'inevitabile crisi di governo che Bossi potrebbe aprire a fine anno rendendosi conto dell'impossibilità numerica anche solo per impostare definitivamente il federalismo e poi ci si giocano tutte le possibilità alle elezioni, sperando che qualcuno introduca nel programma elettorale come prima riforma quella elettorale in senso uninominale, ricordandosi che nelle democrazie con i coglioni le riforme elettorali si fanno immediatamente DOPO le elezioni, e non poco prima per sparigliare in un senso o nell'altro la contesa.
Ma cosa rimane di ciò che Campi ha segnalato?
Rimane che esistono persone all'interno di Futuro e Libertà che potrebbero impedire a Fini di commettere gli "errori" giusti. Di fare vera politica.
Uno che mi viene in mente? Il solito.
Alle 18.02 di ieri pomeriggio, dopo le prime dichiarazioni al termine del vertice di maggioranza, l'onorevole Italo Bocchino dichiara che il voto sulla fiducia «È un modo che salutiamo favorevolmente perché fa appello, e consente di esprimersi, a tutta la maggioranza. La fiducia è la presa di distanza dalla politica dell'autosufficienza praticata fin qui, una presa di distanza che è esattamente quello che noi volevamo. Quindi direi che in generale è un passo avanti sulla strada dell'intesa. Porre la fiducia rappresenta una tesi, quella di appellarsi a tutta la maggioranza, che valutiamo positivamente». Alle 22.27, probabilmente sotto l'effetto del Vinavil e Ranxerox come pochi, il buon Bocchino si scatena a Ballarò: «Berlusconi ha tirato fuori l’operazione fiducia perché gli consente di tirare a campare e di portare avanti la legislatura ma dimostrerà che c'é la "terza gamba" e che è determinante per la tenuta del governo».
Campi e l'onestà intellettuale sul Foglio.
Bocchino a raccontarci delle sessantaquattro società off-shore di B. quando domani gli darà la fiducia, col pretesto retorico che la «fiducia al governo è ben diversa dalla fiducia a Berlusconi» in diretta televisiva.
La scelta è dannatamente facile.
BANG!!!

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